I grandi classici: il romanzo "Guerra e pace" di Lev Tolstoj


di Nuccio Benanti
Il romanzo Guerra e Pace di Lev N. Tolstoj è stato definito la più grande opera della letteratura narrativa russa e una delle più grandi della letteratura europea del secolo XIX. Se ne consiglia la lettura nell’edizione BUR, 12 euro e 1.468 pagine.
Dopo il 1814 i russi entrano «in contatto diretto con la vita sociale e intellettuale dei popoli occidentali; e assieme ad un nuovo bagaglio culturale, essi finiscono per assorbire le idee politiche di impronta liberale» (Brogi Bercoff: 343). Tolstoj sceglie, non a caso, l’ambientazione in epoca napoleonica, poiché è in questo periodo che la popolazione del suo paese comincia a costruire la propria identità. L’invasione condotta da Napoleone si scontra con la difesa del generale Kutusov: una resistenza passiva, tipicamente russa, in cui le forze della natura e il territorio giocano un ruolo decisivo sull’esito finale dello scontro. Resistenza passiva, dicevamo, perché Tolstoj (caposcuola pacifista) è convinto che un grande condottiero non abbia sufficiente forza per modificare gli ingranaggi complessi della storia: tanto meno con la guerra, con la violenza, con la distruzione, con la morte. Lo scontro di Austerliz, la cosiddetta battaglia dei tre imperatori, inizia con una metafora davvero singolare: «Come nel meccanismo dell’orologio, così nel meccanismo dell’esercito in guerra, il movimento, una volta dato, è allo stesso modo inarrestabile fino all’estremo risultato» (Tolstoj: 333). Dove, il lento spostarsi della lancetta della storia è dato dall’insieme «di tutte le passioni, i desideri, i pentimenti, le umiliazioni, le sofferenze, gli eccessi d’orgoglio, di paura, d’entusiasmo di quegli uomini».

Tolstoj sostiene, infatti, che il processo storico è decretato dal tempo di “lunga durata” e mai dai singoli “avvenimenti di cronaca”. Anche se poi, ad essere segnati dalle lancette (i libri di storia) sono proprio questi ultimi episodi. In parole semplici, per Tolstoj la storia viene scritta sempre dal popolo, che è per definizione umile e desidera vivere in santa pace; non dai sovrani, che invece sono ambiziosi e della guerra ne hanno fatto: prima il loro mestiere e poi la loro fortuna. Così, il nostro Napoleone diventa «l’eroe della menzogna: costui crede di guidare i popoli, ma il suo potere è soltanto apparenza» (Pljuchanova: 707). Mentre, nella resistenza passiva del generale Kutusov c’è l’identità del popolo russo, che è un'identità soprattutto popolare; in lui vediamo la raffigurazione della terra russa, che è talmente vasta, estesa, sconfinata da non potere essere certamente presa in un pugno da un uomo piccolo come il Buonaparte. E poi ci sono anche i protagonisti che si contrappongono a lui come gli eroi di un poema epico.
All’inizio del romanzo, Tolstoj ci fa accomodare nel salotto di Anna Pavlovna Scherer per presentarci uno alla volta i primi personaggi, con pochi ma esaurienti tratti caratteristici. Simpatico è il paragone fra la regina del pettegolezzo e il proprietario di una filanda: «sistemati gli operai ai loro posti, s'aggira fra i suoi impianti, nota l'immobilità o l'insolito, cigolante, troppo rumoroso suono di un fuso, in fretta va là, lo trattiene o gli ridà il giusto movimento» (Tolstoj: 54). Così anche la Pavlovna dirige la conversazione dei suoi ospiti e quando sente un suono insolito per l’etichetta dell'aristocrazia russa corre subito a regolare la discussione.
Per digerire la mole di personaggi e schematizzare le famiglie aristocratiche con i nomi che vi ruotano attorno, occorre la lettura di diversi capitoli. Poi si impara a riconoscerli, ad amarli o ad odiarli, toccando con mano quanto siano vivi e reali. Sembra quasi di assistere ad una rappresentazione teatrale in cui ogni personaggio appare ai nostri occhi con le proprie battute e coi propri movimenti.
La cupa atmosfera del palazzo del conte Bezuchov contrasta decisamente con la futilità dei festini e delle chiacchiere prodotte in quantità industriali nella “filanda” di Anna. Perché qui, nonostante le debolezze e le meschinità umane, siamo di fronte al mistero e alla ineluttabilità della morte. In campagna, a Lysye Gory, invece troviamo la residenza della famiglia Bolkonskij, dove vivono il vecchio principe con la figlia Marja.
Tolstoj mette così a confronto personaggi degli ambienti sociali della nuova capitale e dell’antica aristocrazia. Nella descrizione della società aristocratica moscovita e pietroburghese l’autore evidenzia vizi e difetti del ceto a cui egli stesso appartiene. Notiamo anche una diversità di valori tra la nobiltà di campagna e la nobiltà di città. Andrej Bolkonskij e Nikolaj Rostov non sono mai visti in una luce completamente positiva. Anzi, nel romanzo è difficile trovare un personaggio presentato con un tratto morale definito: sono tutti un po' buoni e cattivi, belli e brutti, simpatici e antipatici, forti e deboli, generosi e avari. Così com'è nella vita.
Nikolaj Rostov è uno studente che è andato in guerra per inseguire un ideale militaresco. Andrej Bolkonskij è l’eroe che affronta il nemico con la bandiera stretta fra le mani, il coraggioso soldato il cui narcisismo lo fa vivere in una dimensione irrealistica. Questi personaggi emergono «come uno spruzzo bianco di spuma» in un fiume di militari che difficilmente si salvano dalla corrosiva critica morale dell’autore. Non si salvano gli ufficiali coetanei dei protagonisti (Zerkov, Denisov, Dolochov, lo stesso Boris, e tutti gli aiutanti di campo) che cincischiano, vivacchiando nell'esercito, in vista di una posizione, di una onorificenza, di un interesse personale, di un furto e mai con un'idea di servire la patria.
E’ invece tra i soldati e gli ufficiali di basso rango che Tolstoj, come in una narrazione epica, ci fa incontrare una folla di personaggi, brave persone. Lo sono in modo completo e senza ripensamenti: sono uomini che fanno semplicemente il loro dovere, che obbediscono agli ordini con semplicità, con intelligenza militare, senza rivendicare encomi o medaglie. Si sente fortissimo il risvolto etico della prosa: ogni azione ogni personaggio è giudicato secondo questo metro morale. E tuttavia non è una lettura tediante perché Tolstoj sa maneggiare in modo ironico la sua materia, la scrittura. Il suo è un messaggio morale che passa senza irritare il lettore.
Dicevamo che il motore della storia è il popolo. Hanno un bel dire i grandi generali vittoriosi, o i trattati di arte militare, gli strateghi grandi e piccoli. Nelle note dell’edizione BUR leggiamo che Tostoj usa ironicamente la parola “disposizione” relativamente ai movimenti che le truppe devono fare durante gli scontri. Sì, perché quello che caratterizza l'azione bellica è l’assoluta confusione: la nebbia, il rumore, i movimenti dei reparti, il fumo, nuovamente la nebbia, la difficoltà a comunicare gli ordini, le notizie false, la polvere, l'impossibilità di decidere avendo il quadro completo delle azioni e dei loro risultati. Nel corso della battaglia Tolstoj non esprime giudizi: non potrebbe farlo in mezzo a quel caos. Descrive e basta, ora qua ora là; si muove attento come il timoniere di una barca in preda alla tempesta. Nel cuore dell'azione, l'unica cosa che riesce a cogliere dalla sua postazione privilegiata di narratore sono solo i brandelli di una forza distruttrice che sovrasta e opprime pure l’autore del testo.
I principi Kuragin sono calcolatori, opportunisti, viziosi. Il genio di casa, l'astuto e calcolatore Vassilij riesce pure a convincersi che i suoi spregevoli comportamenti non solo siano legittimi, ma siano il segno della sua benevolenza nei confronti delle persone che sfrutta e spreme per i suoi disegni. Chi nella vita agisce male, sistematicamente, non può vivere con l'idea che i suoi comportamenti siano riprovevoli o malvagi. Così, occorre trovare una giustificazione alle proprie azioni: il bisogno personale, le colpe degli altri, le circostanze, le consuetudini della società. Così l'ingenua principessina Mar'ja sorprende Anatol con la sciocca m.lle Bourienne e comunica al principe che non ha intenzione di sposare il suo seducente e agile figlio, capace di fare «gli scalini a tre a tre».
Nella società aristocratica russa dell'inizio Ottocento (ma, in verità, non solo della Russia) non era previsto che i matrimoni fossero il risultato di una libera scelta degli sposi. Tolstoj non fa altro che descrivere un costume del suo tempo. I matrimoni erano decisi dalle famiglie sulla base di considerazioni molto varie. In un mondo in cui contavano molto le reti di relazioni tra le famiglie, i matrimoni servivano a rafforzarle. Anche i patrimoni erano importanti. Sposarsi con una ricca poteva portare sollievo a bilanci familiari dissestati da tenori di vita insostenibili rispetto alle proprie risorse. Uomini e donne accettavano questa situazione perché, evidentemente, non ne conoscevano altre. L'amore romantico esisteva, ma non era ancora collegato al matrimonio e al diritto di scelta degli sposi.
In questo contesto, Mar'ja Bolkonskaja è un'eccezione e il suo vecchio padre, che le chiede di decidere da se stessa, è molto più moderno di quel che si potrebbe pensare, superficialmente, giudicando le sue fisime, i suoi attacchi di irascibilità, la sua eccentricità. Però c’è da considerare che Mar'ja studia, mentre tutte le altre donne che incontriamo, a partire da Elena, ricevono solo una educazione finalizzata a presentarsi bene in società: imparano a parlare, a ballare, a camminare, ad essere civette, a mostrarsi affascinanti o frivole al punto giusto, in attesa di un buon partito.
Lisa vive questo genere di vita: concepisce un figlio, l’erede di casa Bolkonskij, una nuova vita che non potrà veder crescere. E lei si fissa nella mente di suo marito, e in quella di noi incolpevoli lettori, con lo sguardo di chi dice: «cosa ho fatto di male, perché avete fatto questo di me?». Nel momento della sofferenza e della morte ha capito di essere stata sfruttata, di essere stata obbligata a una esistenza vana, precaria, vuota. La sua è stata la vita di una fattrice: l’unico spazio che una società crudele verso le donne ha riservato per molte come lei, nonostante il principe bianco l’abbia prescelta tra tantissime concorrenti. E Lisa nella morte ritrova la sua piena dignità; ritrova la persona che è in lei e lo proclama con un rimprovero al mondo intero, che echeggia nelle stanze di quel palazzo come l’urlo di un animale sacrificato: «Perché voi mi fate questo?».
I Rostov non hanno una grande immagine sociale. Sono stati anche molto ricchi, ma questo non ha inciso granché sulla consistenza della loro posizione sociale. Vivono a Mosca che è la ex capitale, antica, ma ora, piuttosto provinciale e arretrata rispetto alla rutilante brillantezza mondana e monumentale di Pietroburgo. Quest’ultima è la nuova capitale edificata da Pietro I il Grande a partire dall'anno 1703, sulle sponde del mar Baltico, la sede dell'imperatore e dell'impero russo.
I Rostov non sono cortigiani: a guardarli oggi (i loro ritmi e rapporti quotidiani, le risate delle fanciulle e le corse per i corridoi, la contessa in vestaglia) sembrano una solida famiglia borghese, attenta più alle sue dinamiche interne che ai comportamenti da tenere nel mondo. Ad esempio, ci si preoccupa di più che Natasha sia felice, che non del fatto che possa fare un buon matrimonio, come si profila. Il fatto che siano nobili minori rende abbastanza comprensibile una parte della resistenza di Nikolaj Bolkonski. Uomo del secolo che è finito, di sani principi, appartenente alla grande aristocrazia militare e cortigiana dell'epoca della grande Caterina non concepisce matrimoni (contratti) che non abbiano come risultato il rafforzamento delle dinastie.
La nobiltà, cittadina e di campagna, è comunque una piccolissima percentuale della popolazione della Russia, milioni di contadini sparsi nelle campagne che vivevano la peggiore condizione che gli uomini possano vivere: erano servi della gleba, «anime» asservite legalmente al proprietario terriero, trasferibili da un padrone all’altro attraverso gli atti notarili per compravendita, eredità o dote. La terra valeva molto più delle loro vite.
C'erano piccoli nobili e grandi latifondisti come i Bezuchov. Questi ultimi possedevano interi distretti rurali e sulle loro proprietà i servi erano migliaia. Le condizioni di vita erano intollerabili e spesso, durante il Settecento erano scoppiate vaste rivolte che avevano messo in moto, dietro capi abili e determinati, le popolazioni di intere regioni, come quella capeggiata dal più famoso di loro, Pugacev, di cui si narra nell'altro straordinario romanzo russo: La figlia del capitano di Puskin.
Quindi, gli aristocratici, gli intellettuali, la gente che conta da un lato, i piccoli, i miseri, i reietti dall'altra. Anche nel modo di concepire la religione troviamo questi due estremi: quello deista e razionale dei massoni e quello superstizioso e irrazionale del popolo. Ma questi due aspetti non sono veramente separati: all'incrocio dei due mondi religiosi c'è una cerniera che li tiene insieme e li fa muovere entrambi: per conoscere la verità occorre innanzi tutto credere. Questo, in sostanza dice Osip Bazdeev a Pierre durante il breve colloquio in attesa dei cavalli alla stazione postale. Tolstoj nell'affrontare questo tema esprime le sue posizioni critiche evidenziando: da un lato l'aspetto farsesco del rito massonico, dall'altro l’ironia a proposito dei miracoli visti dai pellegrini. Entrambe appaiono religioni discutibili. Ma poi ci accorgiamo che c'è una terza religiosità verso la quale sembra avere un occhio di riguardo: è quella della principessina Mar'ja; la religione cristiana autenticamente e semplicemente vissuta, che si nutre dei due principi professati da Gesù: la preghiera e l'amore.
Ci eravamo immersi, non senza timori, nel nostro fiume di parole col preambolo storico. Ci siamo fatti trasportare, come un tronco che galleggia, dalle correnti di parole di Tolstoj. Ora, costretti dal limite dello spazio a riguadagnare la terra ferma, nella nostra mente torna a vorticare una domanda iniziale: cosa stringiamo fra le mani? Un romanzo, uno scritto storico, epico, sociale, psicologico o cos’altro? Il nostro è il disagio provato da chi pretende a tutti i costi di ordinare, schedare, classificare. Ancora una volta ci rendiamo conto che alla scrittura non resta altro che rappresentare l’adamitico dilemma. Dopotutto, anche quello di Tolstoj potrebbe essere stato l’ennesimo tentativo di cibarsi impunemente del frutto proibito, quello della conoscenza del bene e del male, nell’eden della scrittura.
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Bibliografia
Brogi Bercoff G., Colucci M, Garzonio S.
1997 – La letteratura di inizio Ottocento in Storia della civiltà letteraria russa, 3 voll., I, pp. 341-346, UTET, Torino.
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1973 – Storia e scienze sociali, La “Lunga durata”, trad. it., in Scritti sulla storia, Mondatori, Milano.
Lo Gatto E.
2000 – Storia della letteratura russa, Sansoni, Firenze.
Pacini Savoj
1997 – Guerra e Pace in Storia della civiltà letteraria russa, 3 voll., I, pp. 704-709, UTET, Torino.
Pljuchanova M.
1997 - Tolstoj, cit., pp. 690-721, UTET, Torino.
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1979 – L’epos eroico russo, Newton C., Roma.
Tolstoj L.N.
2007 - Guerra e Pace, cit, Bur, Milano .