A Brancaccio prima di Puglisi: il Vangelo come processo di liberazione


di Rosario Giuè
MARINEO. Quando nel luglio del 1985, di ritorno dai miei studi teologici alla Gregoriana di Roma, il cardinale Pappalardo mi propose di guidare la parrocchia di San Gaetano, nel cuore del quartiere Brancaccio, mi ricordo che eravamo seduti nel suo studio arcivescovile. 
Sul tavolo, l’immagine di un crocifisso. Guardai quell’immagine e dissi a me stesso: «Parlo e scrivo di Chiesa e mafia, di una Chiesa di liberazione impegnata nel territorio, non posso dire di no». E così accettai. Quando a settembre arrivai, insieme ad alcuni provammo a fare un’inchiesta sui bisogni del quartiere. Girammo di casa in casa, sulla base di un formulario. Emersero sentimenti di rassegnazione e di vergogna, misti al desiderio di riscatto e di cambiamento. Essere “di Brancaccio”, nella seconda metà degli anni Ottanta, era vissuto come un triste marchio. Le strade e diverse famiglie di Brancaccio erano state martoriate della guerra di mafia. Era molto difficile sentire usare, in pubblico, la parola “mafia”. Ma in privato non era così. Dare voce alla voglia di riscatto, riprendersi la dignità violata: questo era il modo più concreto per vivere in quel territorio più umanamente e, insieme, testimoniare fiducia e speranza. Sperimentare una Chiesa più povera, credibile e liberante era la via. Non prendere soldi per le celebrazioni delle messe né per altri sacramenti, nonostante le insistenze. Ma cosa altro fare? La prima cosa era costruire una corresponsabilità. Non il prete da solo, ma insieme. Così dopo pochi mesi, tenemmo libere elezioni, con le schede, del Consiglio parrocchiale pastorale. Come parroco non prendevo alcuna decisione importante se prima non fosse stata sottoposta al vaglio del Consiglio. Era la via di una Chiesa meno clericale. Uno dei primi e più gravi problemi venne dal rapporto con il Comitato dei festeggiamenti di San Gaetano, che voleva fare a qualsiasi costo la festa esterna che non esisteva da più di trent’anni. Perché organizzarla ben sapendo che le feste di quartiere a Palermo in quel tempo erano spesso in mano a personaggi legati a interessi equivoci? Invece le pressioni divennero forti e insistenti, anche economiche, con segnali di ogni tipo. Uno scontro duro. Ma le feste patronali non si fecero, cosa che continuò con don Puglisi. Chi non digeriva per nulla il fatto che la comunità parrocchiale fosse impegnata a sperimentare il Vangelo come un processo di liberazione integrale nel territorio era il Consiglio di quartiere. Molti suoi membri si sentivano scavalcati dal Consiglio pastorale che, a loro avviso, prendeva impropriamente iniziative anche dialogando con l’amministrazione comunale. Il loro immobilismo doveva essere pure il nostro. Il loro silenzio doveva essere anche il nostro. Vi furono richiami vivaci nel corso di incontri pubblici e pessimi segnali in privato. Pubblicammo un dossier — “Ricostruire Brancaccio” — elencando le opere pubbliche necessarie: il recupero del parco di Maredolce, il superamento del passaggio a livello, la costruzione della scuola media e l’acquisto dei pianterreni di via Hazon che diventò poi una battaglia anche per don Puglisi. Ma le nostre energie più attente della comunità erano necessariamente dedite a rinnovare il linguaggio della catechesi e della predicazione, alla cura della liturgia anche valorizzando il coro, alla formazione teologica, alla spiritualità con i ritiri a Pagliarelli o a Gibilmanna. Si avviarono piccole comunità ecclesiali di base, che si riunivano in abitazioni dove ci si confrontava sul Vangelo per incarnarlo storicamente. L’uscire dalla sacrestia mi valse, in ambienti para-mafiosi, il titolo di “prete comunista”. Di queste e altre cose parlai con Pino Puglisi quando mi venne a trovare a casa, nel settembre del ’90. Dopo tre anni la mafia lo ha crocifisso. Pier Paolo Pasolini, in omaggio a Papa Giovanni XXIII, scriveva: «Non serve fare santo chi è santo». Ma oggi è momento di commozione di popolo per la beatificazione del parroco di Brancaccio. Il mio augurio è che la vicenda di don Puglisi, di questo vero cristiano, di questo prete che respirava lo spirito del Concilio, sia come una lettera dello Spirito di Dio alla Chiesa di Palermo e alla Chiesa italiana per rinnovarci insieme, come persone e, più ancora, come istituzioni.
Tratto da Album, inserto di Repubblica del 25 maggio 2013