Petru Sasizza, costruttore di palloni aerostatici e poeta di strada



Vi sono piccoli personaggi straordinari, la cui memoria è legata al sottilissimo filo del ricordo personale di chi li ha conosciuti. In questi casi, quando l’ultimo uomo che ne custodisce il ricordo lascerà questa terra (per adesso noi) si potrà veramente dire che quella persona è definitivamente morta, scomparsa nel nulla.
Il nome Pietro Ulmo ci dice forse poco. Ma se pensiamo al soprannome, Petru Sasizza, e alla sua attività (suonatore di tamburo, poeta di strada e costruttore di palloni aerostatici) la nostra memoria comincia a sfornare dati. Pietro non ha lasciato famiglia, perché viveva da solo, ma nella sua modesta abitazione è rimasto ugualmente un grande vuoto. Davanti all’uscio di casa, ad attenderlo c’erano infatti una cinquantina di gatti, che giornalmente lui accudiva e sfamava con amore, nonostante le sue esigue risorse finanziarie. Nato in un paesino sconosciuto della Sicilia, in una data imprecisata, appartenente ad una famiglia che forse aveva lasciato presto per andare vivere da solo, aveva trovato residenza stabile a Mezzojuso.
Pietro era un instancabile animatore di feste: attorno a lui riusciva a raccogliere folle di bambini ed adulti divertiti e pronti a scommettere sulle sue pubbliche dimostrazioni: «Vola, vola!» «No,nun vola!». E giù pacche sulle spalle e risate! Il riferimento chiaro, inequivocabile, è ai suoi indimenticabili palloni aerostatici di carta velina colorata ch’egli, novello montgolfier, duecento anni dopo l'invenzione del pioniere francese, continuava a sperimentare e a fare volare per divertire il pubblico.
La struttura dei suoi palloni aerostati era realizzata con “ferrufilatu”, sul quale Pietro sistemava della fragilissima carta velina colorata, su cui in precedenza aveva disegnato “i stiddi, u suli, a luna...”. Il collante della struttura non era Vinavil, ma farina impastata con acqua. Mentre il motore della Macchina, l’anima che la muoveva, era costituito da un batuffolo di bambagia, “a mattula”, imbevuta di alcol, appunto “u spiritu”.
Il dosaggio dello “spirito” era di fondamentale importanza per la riuscita del lancio. Pietro sapeva benissimo, infatti, che a decretare il successo o l'insuccesso del volo sarebbe stata quella rigida legge fisica che stabilisce il rapporto tra la forza gravitazionale e quella termica. Ma una dose eccessiva di alcol avrebbe messo a rischio la delicata struttura del pallone, costruito con materiale altamente infiammabile. Di contro, una dose insufficiente di “spirito” non avrebbe consentito il volo. Infine, a complicare le cose, l’eventuale presenza di vento, umidità, sfortuna, iettatura.
Il rito del volo, inserito in un contesto festivo, costituisce una sorta di "arte divinatoria", non molto diversa da quella che i nostri progenitori romani avevano ereditato dagli etruschi che, ad esempio nel volo degli uccelli, sapevano leggere la volontà degli dei. Romolo aveva fondato Roma proprio alzando il naso all’insù, incoraggiato dal passaggio di uno stormo di volatili.
Quando finalmente il fiammifero accendeva lo stoppino, illuminando l’annesso firmamento disegnato sulla carta velina: ecco un coro di voci, applausi e stupore. Se il volo riusciva, allora erano tutti contenti; se falliva, nel senso che il pallone si incendiava e cadeva inesorabilmente al suolo, erano ugualmente tutti divertiti a vedere la sua faccia avvilita che non riusciva a capire le ragioni tecniche del fallimento.
Altra attività che ha reso celebre Petru Sasizza nei paesi della provincia di Palermo è quella di poeta attacchino. Egli scriveva con un pennello pensieri poesie dediche su strisce di carta riciclata (in genere manifesti pubblicitari messi al contrario) e li attaccava sui muri, con la solita colla di farina e acqua. Era la festa di Sant'Anna? Allora ecco scrivere: "Matri Sant'Anna aviti na figghia ca ncelu cumanna". Aveva frasi per ogni commemorazione, solennità, santo, festa patronale o festa dell’albero che fosse.
Il suo mestiere ufficiale, nel senso che ne giustificava la presenza in una festa, in un paese, era quello di tammurinaru. Nei giorni di lavoro si spostava tra un paese e l'altro, chiedendo un passaggio a qualche automobilista disponibile. Quando la distanza non era esagerata, si muoveva a piedi. Ed eccolo allora col suo tamburo a spalla (che usava anche come sgabello) e il suo fagotto di rotoli di carta velina, latte di vernici e frasi edificanti fare il percorso tra un paese e l’altro interamente a piedi. Giunto a destinazione sudato, si accontentava di poco: un piatto di pasta offerto dai frati francescani, oppure un fast food (mezzo pollo, panino, patatine fritte e da bere, a scelta, birra o aranciata) pagato dal comitato dei festeggiamenti.
Poi, un giorno di festa, ecco che il destino portò il conto pagare anche a lui: dopo una nascita in un tempo e in un luogo imprecisati e una vita vissuta errante in un tempo sempre festivo, occorreva anche una morte altrettanto straordinaria (o se preferite, incredibile). Durante uno di questi lunghi e faticosi spostamenti, sulla scorrimento veloce Palermo Agrigento, Pietro Ulmo morì, investito da un automobilista, sconosciuto, che neppure si fermò per soccorrerlo.
In un giorno e in un’ora imprecisati, il suo "Spirito" volò in cielo, tra le nuvole che sembravano fatte proprio di "mattula", mentre il suo corpo rimase freddo, immobile, incredulo a terra accanto al suo inseparabile tamburo; i fogli carta velina e le sue frasi edificanti volarono anch’essi via, portati dal vento chissà dove...