di Rosario Giuè
Possono i cattolici contribuire alla nascita di un' etica civile in Sicilia? E come? La domanda viene spontanea dopo aver letto la riflessione di Vito Mancuso "La religione civile che manca all' Italia" sulle pagine nazionali del nostro giornale martedì 13 gennaio. Riassumiamo brevemente i punti di quell' intervento, cercando di coglierne il succo e guardarlo poi con riguardo alla situazione siciliana. Scrive Mancuso (prima tesi): «Una società è tanto più forte quanto più è unita, e ciò che tiene unita una società è la sua religione», intendendo per «religione» (secondo il senso etmologico) ciò che unisce, «cioè legame, principio unificatore dei singoli» come attrazione irresistibile verso una realtà più grande del singolo individuo. La religione civile «è ciò che consente di rispondere alla seguente domanda: perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo?». Purtroppo, continua Vito Mancuso (seconda tesi), «l' Italia non ha una religione civile», un qualcosa per cui «il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che essa è più importante di lui». Perché questa «religione civile» così necessaria possa nascere occorre, scrive Mancuso (terza tesi), «che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune». A tal scopo si deve far cadere la logica secolare della disputa tra «guelfi» e «ghibellini»: tra chi vuole pretende di tradurre il cattolicesimo così come è in etica e legislazione civile italiana (intregristi cattolici e atei devoti) e tra chi ritiene che l' Italia si può salvare solo dal superamento del cattolicesimo (laicisti, secolaristi).
Dunque, è dal superamento dello scontro tra cattolici e laici, dal loro mettersi insieme in vista del bene comune, che può sorgere in Italia una robusta «religione civile». In questa prospettiva, suggerisce il teologo Vito Mancuso, i cattolici italiani dovrebbero mettere la propria fede a servizio del Paese pensandosi, nello spirito di due parabole evangeliche, «come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta» senza curarsi tanto di una identità da difendere dal nemico laico o laicista. Fin qui Mancuso. E in Sicilia? In Sicilia più che la parabola del seme che marcisce nel campo o del lievito che si perde nella pasta della società, sul piano teologico si potrebbe richiamare un´altra parabola: quella del sale che perde il suo sapore. Se il sale (i cattolici) perde il suo sapore non serve ad altro che a essere gettato via e ad essere ritenuto inutile dagli uomini (società). Sì, anche in Sicilia non è nata una «religione civile». Ma non perché icattolici hanno dovuto affrontare il «nemico» ghibellino, il «nemico» laico o laicista. In Sicilia, dove i cattolici sono maggioranza e hanno governato per sessanta anni, non c´è stata nessuna guerra tra guelfi e ghibellini, tra laici e cattolici. Da noi i cattolici si sono fatti la guerra, semmai, tra loro. Qui la domanda «perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo?» forse nemmeno è mai sorta o quasi. Altrimenti come avrebbe potuto attecchire così fortemente la mafia? Come avrebbe potuto avere campo aperto la corruzione, come ci dice ancora l´attualità di questi giorni? Ovviamente tra i cattolici siciliani vi sono state personalità del calibro di Piersanti Mattarella che hanno vissuto l´esperienza di fede spendendola al servizio del bene comune, nel senso indicato da Mancuso. Ma sono state minoranza. Per persone come Mattarella l´unica contrapposizione da affrontare non veniva dai «ghibellini» laici. Veniva da altri cattolici. Da altri cattolici che hanno badato essenzialmente ad usare la religione per conservare il consenso elettorale, al di là dei risultati della loro azione amministrativa. Spesso con un sostanziale silenzio della leadership ecclesiale. In una regione dove tutti o quasi ci tengono a dirsi cattolici, mafiosi compresi, la dialettica tra il lievito (i cattolici) e la pasta (la società) non esiste. Perché qui tutto è cattolico. Ma cosa è cristiano? Una formazione cattolica tesa a salvarsi l´anima (attenta sul piano etico essenzialmente sul peccato individuale) che non a salvarsi come comunità e, quindi, attenta a mettere l´accento sui peccati strutturali e collettivi (mafia, corruzione, abusivismo) è, a mio parere, alla base della debolezza del cattolicesimo siciliano. Se è così, probabilmente è la consistenza dello stesso cattolicesimo siciliano la questione su cui aprire una discussione serena. È la separazione tra forma del cattolicesimo (uso e abuso dei simboli cristiani) e l´essenza dell’essere cristiani ciò su cui si potrebbe riflettere per contribuire al nascere anche in Sicilia di una «religione civile» popolare e di liberazione.
Dunque, è dal superamento dello scontro tra cattolici e laici, dal loro mettersi insieme in vista del bene comune, che può sorgere in Italia una robusta «religione civile». In questa prospettiva, suggerisce il teologo Vito Mancuso, i cattolici italiani dovrebbero mettere la propria fede a servizio del Paese pensandosi, nello spirito di due parabole evangeliche, «come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta» senza curarsi tanto di una identità da difendere dal nemico laico o laicista. Fin qui Mancuso. E in Sicilia? In Sicilia più che la parabola del seme che marcisce nel campo o del lievito che si perde nella pasta della società, sul piano teologico si potrebbe richiamare un´altra parabola: quella del sale che perde il suo sapore. Se il sale (i cattolici) perde il suo sapore non serve ad altro che a essere gettato via e ad essere ritenuto inutile dagli uomini (società). Sì, anche in Sicilia non è nata una «religione civile». Ma non perché icattolici hanno dovuto affrontare il «nemico» ghibellino, il «nemico» laico o laicista. In Sicilia, dove i cattolici sono maggioranza e hanno governato per sessanta anni, non c´è stata nessuna guerra tra guelfi e ghibellini, tra laici e cattolici. Da noi i cattolici si sono fatti la guerra, semmai, tra loro. Qui la domanda «perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo?» forse nemmeno è mai sorta o quasi. Altrimenti come avrebbe potuto attecchire così fortemente la mafia? Come avrebbe potuto avere campo aperto la corruzione, come ci dice ancora l´attualità di questi giorni? Ovviamente tra i cattolici siciliani vi sono state personalità del calibro di Piersanti Mattarella che hanno vissuto l´esperienza di fede spendendola al servizio del bene comune, nel senso indicato da Mancuso. Ma sono state minoranza. Per persone come Mattarella l´unica contrapposizione da affrontare non veniva dai «ghibellini» laici. Veniva da altri cattolici. Da altri cattolici che hanno badato essenzialmente ad usare la religione per conservare il consenso elettorale, al di là dei risultati della loro azione amministrativa. Spesso con un sostanziale silenzio della leadership ecclesiale. In una regione dove tutti o quasi ci tengono a dirsi cattolici, mafiosi compresi, la dialettica tra il lievito (i cattolici) e la pasta (la società) non esiste. Perché qui tutto è cattolico. Ma cosa è cristiano? Una formazione cattolica tesa a salvarsi l´anima (attenta sul piano etico essenzialmente sul peccato individuale) che non a salvarsi come comunità e, quindi, attenta a mettere l´accento sui peccati strutturali e collettivi (mafia, corruzione, abusivismo) è, a mio parere, alla base della debolezza del cattolicesimo siciliano. Se è così, probabilmente è la consistenza dello stesso cattolicesimo siciliano la questione su cui aprire una discussione serena. È la separazione tra forma del cattolicesimo (uso e abuso dei simboli cristiani) e l´essenza dell’essere cristiani ciò su cui si potrebbe riflettere per contribuire al nascere anche in Sicilia di una «religione civile» popolare e di liberazione.
La Repubblica, 17 gennaio 2009