Marineo: la farsa... e sul più bello arrivavano in piazza altri mascarati


di Franco Vitali
Era un pomeriggio di febbraio come tanti altri e davanti al “monumento” gli anziani erano riuniti in piccoli gruppetti intenti a chiacchierare delle vicende sempre disastrose, a loro detta, della vita dei campi e della pioggia che non voleva arrivare; in un angolo Ciruzzu vendeva, raccolti a piccoli mazzetti, i suoi “sparaci”, un altro invece “abbanniava” i suoi “finocchi pi la pasta”. Ad un tratto spuntavano due strani personaggi a braccetto, con maschere strane e vestiti in modo curiosissimo : da uomo l’uno, da donna l’altro. Si fermavano al centro del monumento e cominciavano a recitare una strana farsa in cui la donna simulava le doglie del parto ma che si concludeva invece con una sana evacuazione in un vecchio “cantaru” che il marito aveva amorevolmente approntato per la moglie!
Tra le risate generali, Mastro Totò e don Giuannino, queste le due persone “mascherate”, onoravano ogni anno il carnevale marinese rifacendo, anche se ormai anziani, quella divertente farsa. E sul più bello arrivavano dalla «chiazza» altri « mascarati»: Ninuzzu con una enorme testa di cartone, Nofriu, Vicenzu, Pippinu e Carmiluzzu che tirando coriandoli e stelle filanti, improvvisavano una danza nella quale coinvolgevano il pubblico divertito.
Piovevano da posti che nessuno riusciva ad individuare, “li trona” che scoppiavano con fragore accanto alla gente tra il divertimento di grandi e piccini. Poi si aggiungevano gruppetti di persone travestite da pecorai con pelli, bastoni, vecchi pantaloni e campanacci, che creavano grande frastuono e gruppi di bambini divertiti.
La gente, dimenticando età e condizione, sghignazzava e si lasciava andare a battute e gesti equivoci, ritenuti in quel momento innocentissimi… e cosi trascorreva la serata!
Ritornando ciascuno a casa propria, l’odore della frittura colpiva provocante le narici, sollecitando l’acquolina in bocca e rievocando immagini fatte di montagne di cannoli con la ricotta, “sfince fritte”, “tartanelle”, “pignolata” e “biancu manciari”!
Si arrivava così, dopo la settimana “grassa” in cui, specie il giovedì, le famiglie si riunivano a mangiare insieme “li maccarruna di li ziti” e a fare “schiticchiu”, agli ultimi giorni di carnevale, caratterizzati dalle ultime farse e sfilate ma soprattutto dal momento magico di “ lu sonu”.
Nei tempi in cui non esistevano le discoteche, si ballava solo a carnevale o nei pochissimi locali pubblici disponibili (“a lu teatrinu scolasticu”, “nni Schillaci” o a “lu casteddu”) ma ancora di più nelle case delle persone, presso quei temerari che decidevano di “teniri sonu”…. temerari, si, perché se per caso osavano rifiutare l’ingresso a qualcuno (che poverino intravedeva nel “sonu” l’unica occasione di arrivare a distanza ravvicinata alla “zita”, il massimo della goduria per quei tempi ) venivano puniti severamente o con il taglio dei fili della luce (mettendo nel panico tutti gli invitati e dando opportunità per qualche furtivo bacio…) oppure, cosa abbastanza frequente, con l’incendio della “ pagghialora”, la pagliera del malcapitato.
Il ballo degli ultimi giorni durava fino al mattino del giorno seguente e la gente, pur se sfinita da contradanze, “sciutisse”, valzer, tarantelle, polke e mazurke, passava direttamente dalla sala da ballo al lavoro (dove quasi sempre dormiva ad occhi aperti!).
Era vissuto così il carnevale, con intensità e partecipazione, sfruttando in pieno l’occasione per il divertimento a volte sfrenato e riservando ai piaceri della tavola ed in particolare dei dolci, grandissima attenzione, benevolenza e disponibilità!
C’era poi la Quaresima a stemperare tutti i bagordi ed a riportare tutti in una dimensione più castigata e penitente, anche se ad onor del vero, alla cerimonia delle Sacre Ceneri che si svolgeva l’indomani della fine del carnevale, c’era molta meno gente di quanta ne avevano viste le sale da ballo!
Franco Vitali, Carnilivari in Tempo del sacro tempo del profano, Palermo, 2002, pp.19-21.