Quannu littra nun ci nn'era, quarta raccolta poetica di Govanni Lo Dico


di Santo Lombino
Sabato 12 dicembre nell'aula consiliare del Comune di Misilmeri è stato presentato il volume "Quannu littra nun ci nn'era", quarta raccolta poetica di Govanni Lo Dico, classe 1928, edita da Adarte editori, con presentazione di Santo Lombino e prefazione di Nicola Grato. Alla iniziativa sono intervenuti Tommaso Romano, Girolama Leone, il sindaco Salvatore Badami, Lavinia Traina. Pubblichiamo la presentazione di Santo Lombino.
“Tebe dalle sette porte, chi la costruì?/Ci sono i nomi dei re dentro i libri./ Sono stati i re a strascicarli quei mucchi di pietra?” A questi versi del poeta tedesco Bertolt Brecht ho pensato quando ho letto le affermazioni:“Potete imparare la storia di tutti i popoli del mondo, dagli antichi egizi a Napoleone Bonaparte, all’impero romano; potete parlare di Martin Luther King o della lunga marcia di Mao, ma se non imparate la storia del vostro comune, della terra che vi fa crescere ogni giorno, nella vostra formazione culturale vi troverete sempre un vuoto sotto i piedi. Perché è da qui che dovete cominciare ad imparare la vostra storia…” A pronunciarle ad alta voce è Giovanni Lo Dico, classe 1928, una vita da bracciante, dirigente di lotte contadine e sociali, di fronte a un pubblico di ragazzi della scuola media del suo paese natale, Misilmeri, nel corso di una conversazione parte di un progetto di educazione alla cittadinanza svoltosi negli anni scorsi.
Questo è lo scopo che anima anche la passione poetica di Giovanni, che, con i suoi componimenti, vuole non solo farci rivivere in tempi e luoghi lontani o apparentemente tali, ma contribuire alla formazione di giovani consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, capaci di essere protagonisti della loro esistenza e non passivi spettatori di scelte fatte da altri.
Essere protagonisti attivi e critici, essere cittadini italiani e cittadini del mondo, di questa realtà così complessa e multiforme, significa, credo, soprattutto sapersi orientare in questo mondo, sapere fare delle scelte, sapere cosa costruire e cosa demolire. Per fare questo, occorre in primo luogo avere memoria. Si è vero, Friedrich Nietzsche ci mette in guardia dal peso eccessivo del passato che come un macigno impedisce a chi vuol camminare di andare avanti, di crescere o creare nuove realtà umane. E’ vero che serve anche l’arte del dimenticare, che spesso aiuta a vivere senza troppa tristezza e oppressione, senza rimanere incatenati dai vincoli di ciò che ci ha preceduto. Ma è anche vero che serve al genere umano la storia come “mescolanza inscindibile tra passato, presente e futuro” (Pasolini, “Le belle bandiere”). Il presente stesso, con i suoi caratteri niente affatto semplici e chiari, con la “modernità liquida“ sfuggente e multiforme, ci spinge a cercare punti di riferimento ricreando l’insieme delle esperienze che gli uomini e le donne hanno condotto nel lungo cammino nel tempo e nello spazio. Dal momento che occorre affrontare con strumenti adeguati il futuro, è necessario utilizzare la memoria del passato come base per la conoscenza storica, intrecciando la memoria individuale con quella collettiva, la storia della classe dirigente con quella delle classi subalterne, i piccoli eventi con i grandi.
Le testimonianze, in qualunque forma si presentino, di chi è nato nella prima parte del XX secolo e ha vissuto le profonde e rapide trasformazioni della società durante i “trenta gloriosi” (1940-1970), sono utili a costruire legami tra la comunità e chi è nato nella seconda metà del XX secolo o in questa prima parte del XXI. Nelle società umane noi siamo insieme agli altri, e costruire la memoria vuol dire stabilire la connessione tra l’esistenza del singolo e il tessuto collettivo e connettivo dei processi storici. La memoria quindi è intreccio di esperienza e narrazione e viene a costituire la mappa per orientarsi non solo nel passato, ma anche nel mondo contemporaneo, per collocarsi all’interno della vita sociale in modo utile a sé stessi e alla comunità.
A proposito di memoria, Anna Rossi Doria ne ha individuato due usi diversi e contrapposti nell’odierna realtà. Da un lato la memoria può essere usata come strumento di “passioni della politica dell’identità”, fino ad arrivare ai fondamentalismi e alle guerre etniche: si tratta di un uso pericoloso e dannoso per il genere umano, che ha portato e può portare anche a violenze, guerre, genocidi. Dall’altro lato la memoria può essere strumento di crescita della coscienza civile nel presente: un uso che favorisce i legami sociali, la comprensione e l’integrazione, la solidarietà tra cittadini e popoli, l’amore per i luoghi e per la bellezza. Nella società tradizionale erano i vecchi con i loro racconti orali che davano “la bussola” in mano ai giovani: raccontare la loro esperienza significava costruire il senso della storia nei giovani, che imparavano così ad ascoltare le voci della storia. Oggi anche la poesia di Lo Dico, come i suoi interventi sul lavoro, i rapporti sociali e la vita tradizionale davanti ai giovani, fornisce un grande aiuto al delinearsi di tali “istruzioni per l’uso della vita”.
Il nostro poeta bracciante, sulla scia del grande Ignazio Buttitta e alla stregua di altri poeti popolari del palermitano (mi vengono in mente, seppur nella loro diversità, le rime baciate o alternate di persone come Ciccino Salerno a Bolognetta, Pietro Ulmo a Mezzojuso, Peppino Piraino e Franco Vitali a Marineo), ha negli anni trascorsi fornito con i suoi versi ricche testimonianze della vita dei singoli e della sua comunità, del mutare dei rapporti personali e interpersonali nella Sicilia degli agrumi e dei loti, degli ostacoli che gli “ultimi” hanno dovuto affrontare e superare per non restare “l’ultimo chiodo della carrozza”, guidata da chi aveva dalla sua parte potere, denaro, istruzione. Così ha pubblicato dal 2006 un quaderno di poesie all’anno, donato a chi lo conosce e vuol leggere i suoi componimenti, senza altro scopo se non la voglia di comunicare, di continuare con gli altri un dialogo lungo una vita intera.
“Nun c’è bisognu di moriri pi ghiri a lu ‘nfernu/Picchì lu ‘nfernu pi iddi già c’è ‘nta stu munnu!”( Non c’è bisogno di morire per andare all’inferno, perché l’inferno per loro c’è già in questo mondo). Con questi versi Giovanni esprime nella raccolta “I senza cammisa” del 2008 vicinanza al dolore per la sorte delle migliaia di nostri fratelli africani che arrivano con le carrette del mare e spesso muoiono durante la traversata, lasciando il loro corpo nel Mediterraneo che avevano sognato come ponte per l’Europa. Così come l’anno prima nel libro “Eranu peggiu di l’armali” aveva cantato il disagio degli emigrati che hanno lasciato il paese ammalati di nostalgia per sempre, ma anche la fame sofferta dalle famiglie numerose, la miseria e le diseguaglianze nella Sicilia d’anteguerra, la guerra e la prigionia, il cambiamento dei costumi, il mutato atteggiamento e ruolo delle donne nella coppia e nella famiglia, i modi e le stagioni della coltivazione dei campi… Ma Lo Dico sa affrontare col sorriso sulle labbra anche temi meno drammatici. Si va dalla rievocazione della “serenata”, portata alla ragazza desiderata dai suonatori e dai cantanti , col rischio, per i suonatori, di essere accolti in modo non proprio garbato dai parenti di lei, alla tragicomica vita del cortile; dalla gioia della festa di Carnevale (“Quanti mascarati si virianu l’ultimu jornu, pari ca vinianu di tuttu lu munnu!”- Quante persone in maschera si vedevano l’ultimo giorno, sembra che venissero da tutto il mondo), di Natale o della Settimana santa, ai sempiterni “contrasti” tra suocera e nuora. “A soggira: Si tinta, ora stai niscennu l’ugna comu una atta/ Stu figghiu mi lu stai facennu addivintari una minnitta” (La suocera: sei cattiva, ora stai uscendo le unghia come una gatta, questo figlio me lo stai facendo diventare uno scempio). Insomma, c’è in queste strofe ogni tassello del mondo finito con la diffusione dei consumi di massa, con la diaspora migratoria, con la televisione, con l’infezione clientelare diffusa dall’Ente dannoso Regione Sicilia.
Quella di Giovanni Lo Dico è dunque un’utile “finestra” per rivedere all’opera la società che ci ha preceduto e che ha visto il passaggio da un modo di vivere immutato per secoli a quello basato sulla tecnologia, la rapidità, l’indifferenza, la mercificazione. Dobbiamo essere tutti riconoscenti a questo cantastorie per questo sobrio e miracoloso viaggio nel tempo, per questo canto senza retorica che arriva alle orecchie e all’ immaginazione, alla mente e al cuore, per questo lavoro di ricostruzione fatto dal di dentro e dal basso, con amorevole e paziente cura, con l’antica sapienza dei contadini.