Danilo Dolci e il cardinale Ruffini


di Francesco Virga
“In questi ultimi tempi (…) è stata organizzata una grave congiura per disonorare la Sicilia; e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci.”
E’ questo l’incredibile inizio della famosa lettera pastorale, intitolata “II vero volto della Sicilia”, che il Cardinale Ernesto Ruffini la domenica delle Palme del 1964 fece circolare in tutte le chiese dell’isola.
Per comprenderne bene il significato e valutarne il valore bisogna collocarla nel tempo in cui è stata concepita e diffusa.
Francesco Michele Stabile, fra tutti, mi sembra quello che con maggiore obbiettività ha saputo farlo grazie anche alla possibilità che ha avuto di consultare direttamente fonti di prima mano, compresi alcuni manoscritti inediti, conservati nell’Archivio dell’Arcidiocesi di Palermo.
Si tratta, secondo lo stesso Stabile, di un “documento del clerico-sicilianismo” ( I Consoli di Dio, Sciascia editore, 1999, pag. 476) che, spostando l’attenzione sull’onore della Sicilia, considera più pericolosi dei mafiosi tutti coloro che, in un modo o in un altro, mettono a nudo le piaghedell’isola. La “congiura” naturalmente esisteva solo nella testa del Cardinale. Peraltro si stenta, ancora oggi, a cogliere il legame presunto tra il celebre romanzo del principe Tomasi di Lampedusa, diventato un film di successo nel 1963, e i libri-inchiesta del sociologo triestino.
E’ vero comunque che siamo davanti al primo documento ufficiale della Chiesa Cattolica in cui si parla di mafia anche se, in sintonia con le idee dominanti del tempo, l’immagine che se ne dà è molto generica e riduttiva. Al Ruffini sfugge del tutto il fatto che la mafia siciliana è stata sempre espressione diretta delle classi dirigenti e, per questo, organicamente inserita nel sistema di potere con connivenze a vari livelli. ( Stabile, op. cit., pag. 479).
Alla vecchia ideologia sicilianista, utilizzata nel secolo precedente dal “Comitato Pro-Sicilia” per difendere l’On. Palazzolo dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio Notarbartolo, il Cardinale Ruffini aggiungeva il suo preconciliare integralismo cattolico che gli impediva di capire e valorizzare lo spirito critico e creativo presente nel mondo laico.
Tornando a Danilo Dolci, cerchiamo adesso di vedere meglio chi era e cosa aveva fatto, fino al tempo (1964) in cui diventa oggetto d’attenzione da parte della principale autorità ecclesiale della nostra isola.
Il Dolci nasce in un paese della provincia di Trieste nel 1924. Di fondamentale importanza, nel suo processo di formazione, è la collaborazione con Don Zeno Saltini presso la Comunità di Nomadelfia. L’incontro con la Sicilia, inizialmente, è quasi del tutto casuale e favorito dal padre ferroviere in servizio a Trappeto. Più tardi lo stesso Dolci riconoscerà: “ Non so ancora bene come e perché sono partito per la Sicilia (…) Ignorante com’ero dei problemi del sud, ignorante di tecniche di lavoro socio-economico”. L’evento decisivo che cambia la sua vita è la morte di un bambino per fame avvenuta a Trappeto il 14/10/1952. Danilo – nome con cui d’ora in poi si farà chiamare da tutti – inizia il primo dei suoi numerosi digiuni che tanta popolarità gli daranno. D’altra parte, fin dal suo esordio, come ha rilevato Amelia Crisantino, Dolci precorre i tempi mostrando di sapere amministrare in modo magistrale il suo personaggio. Il Nostro, infatti, anche se allora, in Italia, non esisteva ancora la televisione, riesce ad amplificare immediatamente le sue iniziative attraverso la radio ed i giornali.
Il 2 febbraio del 1956 Danilo, insieme al segretario della Camera del lavoro di Partinico, Totò Termini, ed altri cinque “attivisti comunisti” - così come vengono qualificati nel Verbale del locale Commissariato di P.S. - sono arrestati, con l’accusa di “abusiva occupazione di suolo pubblico”, per avere condotto un gruppo di contadini disoccupati a lavorare su una vecchia strada interpoderale, detta “trazzera vecchia”, divenuta impraticabile per via dell’incuria degli uomini e delle Istituzioni.
Una dettagliata cronaca dei fatti accaduti quel giorno è stata fatta dal giovane Goffredo Fofi che ne fu testimone diretto e che ha opportunamente riproposto di recente in un suo bellissimo libro di memorie; mentre l’intera documentazione relativa al memorabile sciopero, all’arresto dei protagonisti e al successivo processo venne tempestivamente pubblicata da Einaudi , nell’agosto 1956, col titolo “Processo all’art. 4”. Il libro, meritevole di essere ristampato, grazie soprattutto alle testimonianze di Carlo Levi ed Elio Vittorini e all’arringa finale di Piero Calamandrei, contribuì in modo decisivo a creare il “caso Dolci”: Vecchi e nuovi amici scrissero lettere ai giornali, manifesti di protesta, appelli; gruppi di intellettuali costituirono comitati di solidarietà; al Parlamento vennero presentate diverse interrogazioni.
Il senso dell’ originale forma di sciopero venne molto efficacemente colto da Aldo Capitini:
“ In sostanza che cosa aveva fatto Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della violenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio (…). Le parole più gravi che Danilo disse, rimproverategli come diffamazione, NON ASSICURARE UN LAVORO A QUESTA GENTE E’ UN ASSASSINIO, erano verissime, perché espresse da chi era risalito alle cause”.
Per Dolci l’esperienza del carcere è stata di fondamentale importanza per capire la realtà siciliana e per guadagnarsi la fiducia dei tanti poveri cristi, dei “banditi” cui aveva già dedicato un libro un anno prima. E, non a caso, “PROCESSO ALL’ART.4” si apre e si chiude con le parole di due giovani incontrati all’Ucciardone. Non si dimentichi che dopo venti giorni di carcere al Nostro venne negata la libertà provvisoria perché la sua condotta era “un indizio manifesto di una spiccata capacità a delinquere”. E Danilo stesso, circa vent’anni dopo, nel ricordare quei giorni dirà:
“ lo stesso giorno dell’arrivo mi fu mandato dagli altri carcerati pane, tante olive e tanto formaggio che potevano bastare per tre mesi. Una solidarietà così immediata nasceva dal fatto che lì sapevano che avevo fatto da padre ai loro figli. E mi offrivano quello che avevano. Non ho mai lavorato tanto come durante quel periodo: le mie giornate erano pienissime, perché volevo documentarmi su tutto quanto accadeva nel carcere, soprattutto sulle torture che molti carcerati avevano subito”. ( Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Mondatori 1977, p.66)
Dell’arringa finale di Piero Calamandrei mi sembra opportuno oggi ricordare un passo:
“Nelle democrazie europee(…) il popolo rispetta le leggi perchè ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri! Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che siano le SUE leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. (…). Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami”. ( AA.VV. , Processo all’art. 4, Einaudi 1956, p. 307).