Pier Paolo Pasolini corsaro


di Francesco Virga
Gli articoli giornalistici di P.P. Pasolini - scritti tra il 1973 e pochi giorni prima della sua tragica morte, avvenuta il 2 novembre del ’75, raccolti nei volumi Scritti corsari (Garzanti 1975) e Lettere luterane (Einaudi 1976) – aiutano a capire il presente più di tanta pubblicistica odierna.
Si rimane colpiti, innanzitutto, dalla loro intatta forza espressiva e comunicativa, dalla loro resistenza al tempo. Il fatto stesso che alcune sue parole-chiavi (Palazzo, omologazione, mutazione antropologica, sviluppo senza progresso) siano diventate senso comune è un’ulteriore prova dell’efficacia del linguaggio pasoliniano e della sua capacità di mordere la realtà.
Particolarmente centrata la sua critica al consumismo veicolato dalla televisione, diventata nei nostri giorni ancora più invadente e pervasiva. Pasolini è stato uno dei primi a capire la centralità che hanno i mass media nella società contemporanea. Fin dagli anni sessanta (1), sviluppando la geniale intuizione gramsciana rilevante il nesso stretto esistente tra lingua e potere, aveva colto nelle prime manifestazioni del linguaggio tecnocratico l’emergere di una nuova classe sociale tendenzialmente egemone. Ma, a differenza di tanti intellettuali odierni, non ebbe paura di andare contro corrente, di mettersi in gioco in prima persona, rompendo schemi e logiche di schieramento consolidate.
Non c’è lo spazio qui per analizzare puntualmente gli interventi di Pasolini nel periodo preso in esame né, tantomeno, di fare bilanci critici sulla sua complessa opera di scrittore e regista. Vorrei soltanto provare a ricostruire, con le sue stesse parole, qualcuni dei leit motiv che lo guidano in questa fase della sua vita.
Il suo primo intervento sul Corriere della sera appare il 7 gennaio 1973 col titolo Contro i capelli lunghi. In esso si trova già sommariamente anticipato il tema della mutazione antropologica degli italiani che costituirà uno dei fili conduttori degli scritti di questo periodo:
I capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le cose della televisione o delle rèclames dei prodotti...
D’altra parte, in assoluta solitudine, quasi dieci anni prima aveva già segnalato il grande potere di suggestione che hanno gli slogans del linguaggio della pubblicità.
Particolarmente profetico l’elzeviro comparso il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione. In esso, tra le incomprensioni ed il dileggio di tanti, si individua nella TV il principale veicolo del consumismo e della omologazione in corso. Secondo Pasolini nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto la civiltà dei consumi: il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata a causa del potere della televisione che, già in quegli anni, era entrata in tutte le case:
La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. [...]. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. [...] Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ ha lacerata, violata, bruttata per sempre. (Scritti corsari, Milano, Garzanti 1975, p. 30)
Questo tema sarà ripreso nell’articolo Gli italiani non sono più quelli, pubblicato il 10 giugno 1974. Qui prende spunto dall’esito del referendum sul divorzio, svoltosi il mese precedente, per sviluppare il suo discorso sulla “mutazione antropologica” in corso. Pur convinto che la prevalenza dei NO sia una vittoria, in quanto espressione della crescita dello spirito laico in un Paese dominato fino a ieri dal clericalismo, si mostra preoccupato scorgendo in quello stesso voto la manifestazione del potere «del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano». Scandalizzando molti suoi amici, Pasolini sostiene che la vittoria del NO è una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano ma anche di Berlinguer e del partito comunista, a cui pur si sente ancora vicino. Costoro, infatti, non hanno capito niente di ciò che è successo in Italia negli ultimi dieci anni e, precisamente:
1) che i “ceti medi” sono radicalmente – direi antropologicamente - cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori [...] dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la TV) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.
2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto […] (op. cit., pp. 47-48)
Questo articolo suscita un vespaio di polemiche. Pasolini viene accusato di estetismo ed irrazionalismo, di mancanza di senso storico: Calvino (2) gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta provinciale e contadina ed altri gli ricorderanno l’elogio della civiltà borghese contenuto nel Manifesto dei comunisti del 1848. Ma Pier Paolo replica a tutti precisando meglio il suo pensiero:
E’ stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita edonistico che ha determinato il trionfo del NO al referendum. [...] E’ vero che in tutti questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito che cosa doveva censurare. Doveva censurare per esempio “Carosello”, perché è in Carosello, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, il nuovo tipo di vita che gli italiani “devono” vivere [...] Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un “modello di vita” ha potuto essere propagandato con tanta efficacia [...] (op. cit. pp. 69-70).
Ad altri – e a Calvino soprattutto, dal cui intervento si sentì profondamente ferito ed offeso – risponderà polemicamente, mostrandosi sorpreso dall’accusa di nostalgia di un passato che non aveva alcun motivo di rimpiangere:
Questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni (3).
Particolarmente singolare l’invito paradossale rivolto alla Chiesa Cattolica di passare all’opposizione, evidentemente suggestionato dal ricordo del Cristo splendidamente rappresentato nel suo Vangelo secondo Matteo che, non a caso, aveva dedicato alla memoria di Giovanni XXIII:
la Chiesa potrebbe essere la guida [...] di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l’affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio). E’ questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. (op. cit., p. 97)
Il brano sopra citato è tutt’altro che estemporaneo ed isolato nell’opera pasoliniana. Fin dai primi anni Sessanta, soprattutto nella corrispondenza con i lettori del settimanale comunista Vie Nuove - raccolta nel volume postumo Le belle bandiere, Editori Riuniti 1977 - Pasolini insiste più volte nel considerare rivoluzionario il messaggio evangelico e nel ritenere il marxismo l’erede naturale del cristianesimo.
Per non fraintendere Pasolini occorre, comunque, tenere costantemente presente che il suo punto di vista non è quello del sociologo che guarda con distacco le cose ma quello del poeta che ama e soffre osservando, con tutti i sensi e non soltanto con la ragione, i cambiamenti in corso. Ciò appare con particolare evidenza nel famoso articolo sulle lucciole pubblicato dal Corsera l’1 febbraio 1975, col titolo Il vuoto di potere in Italia. Ne riprendiamo di seguito i passi più salienti:
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e [...] dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e sfolgorante. Dopo pochi mesi le lucciole non c’erano più (op. cit., p.157).
Si aprì allora la nuova epoca della storia umana, ciò di cui pochi si resero conto:
Per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla [...]. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque «coi miei sensi» il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. [...] oggi in realtà in Italia c’ è un drammatico vuoto di potere. Gli uomini di potere democristiano sono passati dalla “fase delle lucciole” alla fase della “scomparsa delle lucciole” senza accorgersene [...] non hanno sospettato minimamente che il potere che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una normale evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura [...] Gli uomini di potere DC hanno subito tutto questo, credendo di amministrarlo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione [...] gli uomini di potere DC hanno bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere (op.cit., pp. 160-163).
La densità di questo passo richiederebbe un vero e proprio saggio come commento. Per ora mi limito ad osservare che non è casuale il fatto che Leonardo Sciascia (4), tra i pochi ad averlo compreso ed apprezzato fino in fondo, apra il suo L’affaire Moro richiamandosi a quest’articolo. In secondo luogo noto che l’esplicito rimando a Gramsci e ai saggi linguistici raccolti in Empirismo Eretico, confermano la decisiva influenza avuta dal sardo nella formazione del pensiero di Pasolini.
Per concludere va ricordato che il riferimento agli uomini di potere democristiani diventerà ancor più stringente nell’articolo del 24 agosto 1975 in cui chiederà un vero e proprio processo per l’intera classe politica che ha governato l’Italia negli ultimi trent’anni. Impressionante appare, ancora oggi, l’apertura in cui vengono elencati i reati contestati:
Disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, uso illecito dei servizi segreti, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna [...], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia (5).
Si dovranno aspettare quasi vent’anni per sentire l’eco della solitaria denuncia pasoliniana in aule giudiziarie. Gli unici uomini politici contemporanei che, seppure in ritardo, non rimasero insensibili ad essa si chiamavano Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa (6). Ma, non a caso, i due incontrarono più di una resistenza all’interno dei loro stessi partiti. Cosa che non avrebbe potuto sorprendere chi aveva scritto che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica della politica sono due cose inconciliabili in Italia”.
Oggi avverto particolarmente la sua assenza, e non riesco a consolarmi, come fanno tanti, pensando che non può esserci più spazio nella società odierna per intellettuali come lui.

Note:
1) Vedi soprattutto i saggi linguistici di Pasolini scritti negli anni 60 e raccolti nel volume Empirismo eretico pubblicato da Garzanti nel 1972.
2) Italo Calvino interviene nel dibattito dalle colonne del Messaggero il 18 giugno 1974.
3) La replica di Pasolini viene pubblicata dal Paese Sera l’8 luglio 1974. I due autori torneranno a confrontarsi nell’ottobre dell’anno successivo. Per quest’ultimo scambio epistolare si rinvia a P.P.Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi 1976, pp.179-184.
4) Singolare appare il fatto che, pur essendo tanto diversi tra loro per formazione e temperamento, Sciascia e Pasolini si siano ritrovati, alla fine, sulla stessa lunghezza d’onda. Particolarmente toccante la testimonianza resa dal siciliano dopo la morte dell’amico: «io mi sentivo sempre un suo amico; e credo anche lui nei miei riguardi. C’era però come un ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare.» ( Leonardo Sciascia, Nero su nero, Torino, Einaudi, 1979, pp.175-176)
5) L’intero articolo pubblicato sul Corsera, ma non compreso negli Scritti corsari, venne successivamente raccolto, insieme ad altri, in P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., pp.114-123.
6) Per quanto riguarda Berlinguer sono note le resistenze incontrate, dentro il suo stesso partito, quando propose la politica dell’austerità e la centralità della questione morale. Meno nota, invece, l’attenzione prestata da Ugo La Malfa al poeta, venuta alla luce recentemente con la pubblicazione di un suo inedito sul Corriere della sera del 6 maggio 2004.