Il soprannome (a Bolognetta)


di Santo Lombino
- A ‘mmia tiri? tu t’anserti! Tiri a me? tu ti colpisci!
Finivano così, con questa espressione dell’anziano padre, tutte le discussioni tra Peppe, giovane contadino di Bolognetta che sarebbe diventato mio bisnonno, ed i suoi genitori. Che non ne volevano assolutamente sapere della scelta del figlio di lasciare il paese e andare a farsi monaco.

- Voglio andare al convento di Ciminna - diceva l’aspirante frate magnificando la vita comunitaria e la bellezza dei luoghi. Il padre voleva invece che Peppe, il secondo dei suoi tre maschi, lo aiutasse nei lavori agricoli che di braccia avevano tanto bisogno.
- E’ il migliore della provincia, e poi è vicino - sosteneva il giovanotto per non allarmare la madre, che di lui non si voleva dispisare e aveva già un figlio a Padova a fare il servizio militare.
- Posso venire quando voglio e quando ce n’è bisogno: a Natale, a Pasqua, per la festa di sant’Antonino…
Ma lei non credeva fosse così facile e al vecchio non bastava avere il figlio nelle feste comandate.
- I nostri compaesani vengono trattati sempre bene, perché fu il barone Marco Mancino, che fondò il nostro paese, a dare i soldi ai frati Cappuccini per costruire quel monastero, tanti e tanti anni fa…
A questo aspetto i due non erano interessati: molto più pressante era il bisogno di aiuto per spietrare, zappare, arare, seminare i pochi ettari di terreno a frumento e a vigna alla Filaccina e a Roccabianca.
I due punti di vista erano difficilmente conciliabili. Alle frasi dette a voce sempre più alta seguivano regolarmente le imbronciature e alcuni giorni di silenzio. Era successo decine di volte, e la scena sembrava doversi ripetere chissà quante altre volte.

Un giorno d’autunno del 1887, inaspettatamente, Peppe pensò fosse giunto il momento. Alle prime luci dell’alba, si vestì di tutto punto, mise ai piedi le scarpe chiodate con cui andava in campagna, in un sacco qualche capo di biancheria, sulle spalle lo scappularu, il gabbano nero con cappuccio, per ripararsi dal freddo. Tutto questo senza accendere la lucerna ad olio e cercando di non far rumore. Scese dal solaio per andare alla pagliera dell’ultima strada (così tutti chiamavano la via Marineo) e prendere il fardello preparato la sera prima, con mezzo pane, due cipolle e un po’ di formaggio. Gli sarebbe piaciuto abbracciare la madre, ma se lo avesse fatto avrebbe svegliato il padre e allora, addio partenza! Nonostante i suoi venticinque anni era sempre un ragazzino per lui, e, conoscendolo, sapeva che il genitore gli avrebbe impedito di partire, con le buone o con le cattive.
Così, salutò nella stalla la mula Angelina che lo conosceva da quando era piccolo e con cui aveva percorso tante strade e viottoli impolverati d’estate e fangosi in inverno per andare all’antu nelle contrade del Mulinazzo, al piano delle Vecchie, a Gurreri o a Dagariato.
A cinque anni aveva cominciato ad accompagnare il padre o i fratelli in campagna: allora solo per compagnia, ma un mese dopo conosceva bene la strada per arrivare al podere di Cugnu Lagnusu, dallo zio Vincenzo, quello che non aveva avuto figli, e l’anno seguente era capace di camminare sotto il sole per tre chilometri all’andata e tre al ritorno per prendere alla sorgiva l’acqua per gli uomini impegnati nella mietitura. Aveva poi imparato a mungere la capretta che dava il latte a tutta la famiglia, a strappare le erbacce dalle favate e a raccogliere le olive con i grandi, da ottobre a Natale. A dodici anni sapeva guidare l’aratro nei terreni pianeggianti e tagliare l’avena con la fullana...
Ora voleva diventare frate cappuccino, di quelli che venivano a Bolognetta il venerdì santo di ogni anno a fare la predica prima del precetto pasquale, quando tutti gli uomini andavano in chiesa, alla matrice. Padre Alfonso attaccava dal pulpito con piglio deciso chi non perdeva l’abitudine di bestemmiare a ogni piè sospinto, quelli che dicevano di essere cristiani ma a messa tutte le domeniche non ci andavano e poi volevano fare da padrini nelle cresime o nei battesimi, tizio filano e martino che i dieci comandamenti non li rispettavano per niente ma erano in prima fila a portare l’abitino nelle processioni del santo protettore… Aveva deciso di scegliere questa vita per allontanarsi dal paese e conoscere facce nuove, dimenticare la delusione amorosa provata per colpa di Annicchia, la figlia di mastro Andrea il calzolaio. E poi non voleva finire a quarant’anni come lo zio e il nonno, piegati a novanta gradi dal lavoro di tutti i giorni con zappa, zappudda e zappuni. Avrebbe finalmente imparato a leggere e scrivere, lui che non sapeva neanche fare la o col bicchiere e diventava rosso se qualche anziano gli chiedeva di leggere una lettera. Mentre le femminucce andavano tutte a scuola, per lui e per gli altri maschi non c’era stato verso di convincere gnir pa’ a lasciarli andare alla scuola comunale, tenuta nelle case di Luminato Malleo dal maestro Di Pisa che veniva ogni mattina col carretto da Misilmeri o dalla signorina Ugdulena che arrivava da Palermo il lunedì e se ne tornava a casa il sabato.
Pensando a queste cose, Peppe percorse le strade e le piazze ancora deserte, evitando di correre per non fare troppo rumore. Non vide nessuno, neanche i carrettieri partiti qualche ora prima per andare a vendere verdura e ortaggi allo scaro di Villabate. Si avviò alla trazzera per attraversare il ponte di Passo Grande: il torrente Milicia, là sotto, era asciutto, perché dal mese di aprile non pioveva. Ci andava spesso in primavera, a prendere anguille seguendo il corso del fiume e andando a fare poi il bagno alla naca Lo Brutto con i fratelli o con il cugino Vanni, quando non andava alle acque calde di Cefalà Diana. Molti anni prima, mentre si asciugava al sole, aveva sentito da Japico, un pastore magro magro dai capelli a cespuglio, la leggenda della grotta di San Nicola nel Monte di Cane. Si diceva che ci fossero dentro tanti lingotti d’oro, ma erano riservati a chi avesse vinto una partita a bocce con gli spirdi che abitavano la caverna. Perdere, significava restare per sempre là dentro, vittime dell’incantesimo. Peppe ricordava come fosse ieri il racconto della truvatura e dei berretti rossi, ascoltato a bocca aperta e ad occhi spalancati molti anni prima.
Ricordando quella storia, Peppe aveva percorso soprappensiero qualche chilometro costeggiando il bosco degli Ulivi. Proseguì verso Baucina e Ventimiglia, attraversando colline punteggiate di pietroni bianchi pieni di muschio verdechiaro. Ad un certo punto si fermò, si tastò le spalle, si accorse di non avere più sulle spalle lo scappularu nero. Pensò di averlo perduto lungo il cammino e tornò indietro, avendo cura di rifare, senza sbagliare, la stessa strada. Non ricordava più se aveva sempre fatto la strada normale, più larga, con pochi sassi e pochi cespugli, o preso la scorciatoia, piena di spine e roveti pieni di more, per evitare i tornanti. Non trovò il soprabito: era sparito nel nulla, come volatilizzato. Fu così che arrivò in paese, anzi davanti casa. Entrò, e non andò più in convento.
La voce della sua partenza si era sparsa in poche ore, e poi si sparse altrettanto rapidamente quella del suo ritorno. Mastro Mario, il fabbro ferraio che parlava sempre in rima e inventava versi e canzoncine per ogni evento in qualche modo memorabile, non si fece scappare l’occasione, e coniò per il mio bisnonno la ‘nciuria, il soprannome. Da allora in poi, per tutta la vita e oltre, il mio avo fu per tutti Peppi ‘u monacu…
Non c’era nulla da fare. Il mancato cappuccino dovette rassegnarsi a quel nomignolo, riferimento nostalgico a ciò che avrebbe voluto essere e non fu, ad un sogno finito per caso lungo i viottoli del bosco degli Ulivi.
In fondo gli era finita bene: potevano appioppargli epiteti più cattivi e, l’intenzione degli autori, infamanti. Chessoio, fimminedda, oppure farfanti, tignusu, porcu ‘i Casachedda, o peggio. Bastava un gesto, una frase detta in un particolare momento, che eri bollato per sempre ed eri costretto a trasmettere agli eredi, oltre alla casa il materasso il baule le bisacce ed il cognome, anche il soprannome come ai tempi degli antichi Romani.
A volte quest’aggiunta nasceva dal bisogno d’una distinzione tra consanguinei, come per esempio tra i nipoti di uno stesso nonno, tutti regolarmente omonimi e a volte con lo stesso anno di nascita, perché i padri e le madri avevano voluto onorare gli avi tramandandone col battesimo l’intero patrimonio anagrafico. Così se quattro cugini di età molto vicina si chiamavano Stefano Pantelleria, bisognava pur distinguerli l’uno dall’altro: uno veniva soprannominato ‘u surdu, un altro negghia, uno non proprio altissimo menza razioni, e così via. C’era chi conosceva l’appellativo malizioso con cui lo chiamavano in paese, e lo accettava, scherzandoci su o facendo magari finta di non saperne nulla; c’era chi non lo accettava per niente e si offendeva a morte se gli altri lo usavano, cosa che capitava quando un bambino o un ragazzo lo pronunciava in presenza dell’interessato, scambiandolo ingenuamente col vero cognome. Altri nomignoli venivano dati dal vicinato o dai compagni di lavoro in base al carattere o a certi comportamenti: nascevano così vrurusu, filici, tosta, cadormi, battarìa, pauredda, calabrisi, birbanti, simmuluni, ballunaru. Un difetto o un pregio fisico anche minimo non passava inosservato agli occhi degli altri, e subito veniva applicato al portatore: patata, manuzza, iriteddu, manchetta, cacacavusi, perichiummu, nivuru, sanguignu, curidda, tistuni, testavascia, cudduzzu, vrazzeferru, surdu, beddu, funcidda, funciazza, taliancelu, pupiddu, arrobbapani. Chi la voce popolare accusava di aver millantato cariche ed onori si trovava a ricevere gratuitamente e vita natural durante dalla stessa titoli nobiliari honoris causa, come conte, marchisi, colonnellu, cavaleri, regina, lorsignori, menzasignura, muschitteri o veniva riconosciuto con termini presi a prestito dalla storia e dalla politica: menzu fascista, mussulinu, giummiddu, bixio, profuga, sinnacheddu. Ti scappava un balbettamento, un intercalare, un verso onomatopeico? Ed ecco che ti affibbiavano zichi-zichi, cheli-cheli, lallà, vevè, torololò, ‘nguarà, cipi-ciapi, lollò, dipò, papà, percui. Non mancava poi il ricorso alla botanica era per indicare donne o uomini (ciuriddu, piparedda, fraschi ri pisedda, viticedda, reppumaroru, vrocculu, pitrusinu), né era trascurato il regno animale. Ecco allora iaddazzu, pecora, spinnacardiddu, scursuneddu, schirpiuneddu, lupu, voi, vuiceddu, corna di crapa, papuzzana...
Mio nonno Santo partì soldato e lo portarono sull’Isonzo a tagliare filo spinato con la cesoia, assieme agli arditi che affrontavano la morte. Quarantadue bolognettesi caddero nell’inutile carneficina, mentre mio nonno tornò a casa in congedo permanente. Una bomba austriaca lo colpì, e ci rimise la mano destra. Da allora dovette imparare a zappare con la sinistra.
Dopo il fatto, anche a lui fu dato dai concittadini un soprannome. Forse, chissà, anche per distinguerlo dal cugino con lo stesso nome e lo stesso cognome, soldato del decimo fanteria, morto un mese prima che finisse la guerra. Tutti in paese lo chiamarono ‘u zu Santu cu-na-manu.