Il soprannome (o nciuria) marchio a fuoco della fama e dell’infamia


di Nuccio Benanti
MARINEO. La nciuria: non c’è nulla di più effimero e fuggitivo; non esiste tuttavia nulla di più duraturo e vivo, in quanto deposito collettivo di esperienze umane.
Il soprannome, ossia il triangolo semiotico di significante significato e referente, è contenitore culturale, marchio a fuoco della fama e dell’infamia, parola d’ordine dell’onore o del disonore di una discendenza, di un intero lignaggio. Gli antichi greci usavano un oggetto spezzato in due metà e in possesso di due famiglie diverse che, incontrandosi e tornando a far combaciare i pezzi, si garantivano in maniera reciproca l’identità l’uno dell’altro. Anche dopo anni, dopo generazioni, il frammento custodito, che testimoniava del passato rapporto tra due famiglie, assicurava ospitalità ed aiuto da parte dei discendenti dell’ospite.
Anche la nciuria nostrana, in quanto segno, è strumento di cui l’umanità che popola piazze, vie, vicoli e curtigghi del nostro paese si serve per riconoscere il contesto che la circonda, creando un universo parallelo, una rete di significati, che include marinisi e stranii, gente affidabile e gente inaffidabile, burgisi viddanni comunisti nobili e gente basso o altolocata. Una ragnatela, per dirla con Geertz, in cui si vive imprigionati senza poterne più uscire.

Per Buttitta l’identità è ciò che siamo, ma è anche come ci rappresentiamo; è anche come gli altri ci rappresentano; e infine la nostra identità è tutto quello che vorremmo essere e non siamo. Pirandello, in una estrema sintesi, direbbe che ognuno di noi è contemporaneamente: Uno, Nessuno, Centomila. Ora, se si riflette: quello che pensiamo di noi e quello che noi pensiamo degli altri, sono ambedue rappresentazioni convenzionali, che tuttavia non corrispondono mai ad una verità storica. Lévi-Strauss sostiene, infatti, che l’identità è una sorta di focolare cui è indispensabile riferirci per spiegare un certo numero di cose, ma senza che tale focolare abbia mai una esistenza e una consistenza reale.
Tutto ciò lo ha sperimentato per primo il gigante Polifemo che, ingannato dall’identità di Ulisse, dice di essere stato accecato da Nessuno. L’oralità non distingue la N maiuscola dalla n minuscola. Così nessuno, con la minuscola, dei giganti accorre in soccorso del ciclope. L’inganno, attraverso l’uso improprio dell’identità, è la prova schiacciante che il noto episodio dell’Odissea non può essere stato ambientato in Sicilia e, di conseguenza, che la nostra Rocca non può essere la Tomba di Polifemo, semmai è la Tomba di nessuno.
Infatti, se con il linguaggio e con intenzioni conoscitive tipicamente sicule ‘u zu Polifemo avesse chiesto al furbetto: «A cu apparteni?», Ulisse sarebbe stato messo con le spalle al muro e costretto a declinare con una sola parola (supponiamo a «nuddu») tutto ciò che socialmente e culturalmente avrebbe potuto configurare la sua estroversa personalità, inclusi famiglia di origine, status sociale e luogo di provenienza.