di Francesco Virga
L’interesse suscitato, tra i lettori di questo blog, dal mio precedente pezzo su Gramsci mi spinge a tornarci, seppure in modo sommario.
Mi ha colpito, innanzitutto, il fatto che, tra i commenti, uno provenisse dall’Argentina. Questo dato, da un lato, conferma la straordinaria circolazione dello scrittore sardo nel mondo, dove risulta uno degli autori italiani più tradotto e letto, dall’altro, fa sperare che, prima o poi, questo grande uomo tornerà ad essere letto anche in Italia, dove i suoi più diretti eredi sono stati i primi a tradirlo ed abiurarlo.Ho sempre considerato Gramsci un classico del 900. E mi vado sempre più convincendo che i classici sono i migliori antidoti nei confronti delle mode culturali. Cosicchè mentre queste ultime risultano ogni giorno più effimere, i primi durano e resistono al tempo anche quando sono investiti da pretestuose polemiche .
“Dire la verità è rivoluzionario”: in questo motto, che campeggiava nella testata di una delle riviste da lui create (L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista), si potrebbe riassumere il complesso pensiero e la breve vita di Antonio Gramsci (1891-1937).
Fin da giovane, aveva mostrato di prediligere la verità su tutto. Basti rileggere gli articoli scritti negli anni della prima guerra mondiale. In uno, in particolare, credo che si trovi la chiave per comprenderli tutti:
“Noi siamo persuasi che i fatti dovevano rimanere tali anche in tempo di guerra, e che la storia e la cultura sono cose troppo da rispettare perché possano essere deformate e piegate dalle contingenti necessità del momento. La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti. Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire.” ( La conferenza e la verità, in L’Avanti torinese del 19/2/1916, ora nel volume “ Sotto la Mole”, Einaudi 1960, p.43)
Queste affermazioni non sono l’ingenua manifestazione del pensiero di un giovane idealista. L’amore per la verità contrassegna l’intera opera gramsciana e ne costituisce uno dei suoi leit-motiv. Lo stesso scontro con Togliatti nel 1926 avverrà proprio su questo terreno. Infatti non condividendo le ragioni che spinsero quest’ultimo a censurare le sue critiche a Stalin, con spirito profetico, arriverà a predire il “suicidio” della rivoluzione d’ottobre. Gramsci, a differenza di Togliatti, non accetterà mai la necessità di sacrificare la verità sull’altare della rivoluzione. Basta rileggere le Lettere e i Quaderni del carcere per convincersene:
“Io sono sempre stato dell’opinione che la verità abbia in sé la propria medicina”. ( L., p.783)
“Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia alla ricerca della verità (…), si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata(…) nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario(…) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie ( nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico.” (Q, 1933)
“Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli”. (Lettera del 12/10/1931, ora in A. Gramsci-T.Schucht, Lettere 1926-1935, Einaudi 1997, pp.833-834)
“E’ opinione molto diffusa (…) che sia essenziale dell’arte politica il mentire, il saper astutamente nascondere le proprie vere opinioni, i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole, ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti (…) nella politica di massa dire la verità è una necessità politica.” (Q. p. 222).
Quest’ultima nota, in particolare, per essere compresa in tutto il suo valore, va collegata alla sua concezione non elitaria della politica e di ogni attività intellettuale. Per Gramsci, infatti, la politica non doveva essere riservata agli addetti ai lavori. Dal suo punto di vista - così come “tutti gli uomini sono filosofi perché tutti pensano” - tutti possono e devono occuparsi di politica; tanto più se si crede nella possibilità di superare la secolare divisione del genere umano in dirigenti e diretti.
In uno dei passi meno citati e frequentati dei Quaderni si trova scritto:
“Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari (…) Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto (…) Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? (…) per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poichè ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più.” (Q. pp.1752-1753)
Rileggendo oggi questo brano, scritto in carcere nel 1933, si comprende meglio perché la memoria di Gramsci è stata rimossa dall’orizzonte politico dell’Italia odierna. Con un ceto politico sempre più autoreferenziale e irresponsabile, interessato soltanto a difendere le proprie rendite di posizione, a prima vista sembra che non possa esserci più spazio per l’utopia gramsciana. D’altra parte è comprensibile il silenzio della “Casta” di fronte ad un Autore rivelatosi profetico in più di una circostanza. E’ molto più comodo per tutti oscurarlo e/o ricordarlo soltanto in modo rituale. Invece per me, pur riconoscendo che su alcuni punti è necessario andare oltre Gramsci, rimane valido il suo metodo di approccio critico e mai dogmatico ai problemi. E molte sue pagine mi appaiono ancora oggi di straordinaria attualità. Si rilegga, ad esempio, “La favola del castoro”, dedicata all’analisi dei dirigenti socialisti italiani del primo dopoguerra che, con la loro inettitudine, aprirono le porte al fascismo.
Sicuramente “la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili” oggi è maggiore di ieri; per non parlare del “distacco tra rappresentati e rappresentanti” e “la nessuna unione con la classe rappresentata” da parte di quella che oggi, non a caso, viene definita una “casta”.