di Francesco Virga *
Per Simone Weil la perdita della memoria è una delle più grandi tragedie del nostro tempo.
Ma, tra tanta incuria e smemoratezza, c’è ancora chi si ostina a non dimenticare. Giuseppe Casarrubea è uno di questi. Dopo le ricerche svolte sui Fasci Siciliani dell’800 e sulla mafia, lo studioso ha concentrato la sua attenzione sull’ultimo dopoguerra, scrivendo saggi originali sulla Strage di Portella del 1 maggio 1947, sul bandito Giuliano e sul ruolo che hanno avuto i Servizi Segreti nella storia della nostra Repubblica. Per questi suoi ultimi lavori lo studioso ha dovuto anche difendersi in Tribunale dall’accusa di avere diffamato, a mezzo stampa, un Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri in pensione.
Il fatto, una volta tanto, non è passato inosservato; anche la stampa nazionale ha dato rilievo alla notizia e Casarrubea ha ricevuto attestati di stima e di solidarietà da più parti. Alla fine la vicenda giudiziaria si è conclusa positivamente per lo storico, anche se rimane l’amaro in bocca pensando che la ricerca della verità ancora oggi è ostacolata, oltre che dai poteri occulti, dalla stessa legislazione vigente.
Avendo conosciuto Giuseppe Casarrubea negli anni settanta, nel periodo in cui lavoravamo insieme con Danilo Dolci, ed avendo avuto modo di apprezzarne il rigore e l’onestà intellettuale, mi sono sentito particolarmente vicino al dolore che ha provato nel momento in cui la sua ricerca, invece di essere civilmente dibattuta, finiva in tribunale. Il libro incriminato, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, edito da Franco Angeli nel 1997, come ogni autentico libro di storia, non è mosso da alcun rancore personale. L’Autore, con una tenacia ed una coerenza così rare ai giorni nostri, ha dedicato gran parte della sua vita a cercare di fare luce su un periodo cruciale della storia della nostra isola e dell’Italia intera e su una strage che l’ha toccato nel vivo, quand’era ancora un bambino, segnando per sempre il suo destino.
Sulle motivazioni profonde che stanno alla base della sua ricerca Casarrubea, pur così schivo e restio a parlare di sé, si è “tradito” in due occasioni. La prima nella dedica al padre e a tutte le vittime delle strage posta in epigrafe al libro suddetto. La seconda nel bellissimo ritratto di Danilo Dolci - di cui Giuseppe rimane, per me, uno dei migliori discepoli - scritto all’indomani della sua morte:
“Ricordo che andavo a trovarlo al Centro di Largo Scalia, a Partinico. Dietro la sua scrivania, in alto, leggevo sulla parete un Datzbao, scritto di suo pugno, a caratteri enormi: “CHE COSA SUCCESSE NEL BAGLIO DEI PARRINI?” . Non glielo chiesi mai , sapevo che
mi avrebbe risposto di attivarmi per saperlo: il suo compito era anche quello di suscitare interrogativi. E quello me lo portai dentro per decenni, fino a quando non mi sono imbattuto nella ricerca sulla strage di Portella della Ginestra”. (L’inchiesta, gennaio 1998)
D’altra parte proprio Danilo Dolci ha più volte detto che “Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage”.
Giuseppe Casarrubea conosce bene i ferri del suo mestiere e sa che ogni storico lavora su documenti che risultano quasi sempre incompleti ed insufficienti. Nel caso specifico poi è noto che persino molti documenti ufficiali –atti giudiziari, atti parlamentari, memoriali, ecc.- sono rimasti, fino a qualche anno fa, inaccessibili perché considerati “segreti di Stato”. C’è voluto l’impegno costante dell’Associazione dei familiari delle vittime, per convincere la Commissione Parlamentare Antimafia della precedente legislatura e desecretare alcuni atti mentre tanti altri rimangono ancora oggi occultati nei cassetti di diversi Ministeri.
Alla luce della documentazione fino ad oggi disponibile, Casarrubea ha potuto confermare l’esistenza del connubio tra mafia, banditismo ed apparati separati dello Stato nella Sicilia dell’ultimo dopoguerra – la famosa Trinità di cui parlerà Pisciotta al processo di Viterbo prima d’essere zittito per sempre col caffè alla stricnina - e, più in generale, l’ipotesi secondo la quale l’Italia repubblicana nasce con un vizio d’origine, la presenza di un “doppio Stato”, di una sorta di doppia fedeltà dovuta da parte dei funzionari e della classe politica governativa, da un lato alla nuove istituzioni sancite dalla Costituzione del 1948, dall’altro alle strutture dell’Alleanza Atlantica, spesso clandestine, segnate dalla paura del nemico comunista .
Meno convincente appare, invece, l’ipotesi di una partecipazione di neofascisti alla Strage. Infatti, nonostante la presenza di numerosi indizi e documenti provenienti dai Servizi che potrebbero avvalorarla, l’ipotesi è poco credibile per vari motivi. Innanzitutto per la scarsa credibilità delle fonti che, più volte, nella storia sono risultate manipolate e manipolabili; tant’è che, fin dalla loro nascita, i Servizi Segreti tra i loro compiti istituzionali hanno avuto proprio quello di costruire falsi documenti per depistare.
D’altra parte la mafia, che controllava in modo capillare il territorio in cui è avvenuta la Strage, non aveva bisogno dell’aiuto del Generale Borghese per organizzare la strage, dal momento che godeva già di sufficienti coperture. E chi ancora nutre dubbi su questo punto è invitato a leggere le testimonianze rese, all’indomani della Strage, dai segretari delle Camere del Lavoro di Piana e San Giuseppe Jato, pubblicate recentemente.
Dobbiamo, comunque, ringraziare Giuseppe Casarrubea per essere riuscito a demitizzare la figura di Turiddu Giuliano, dimostrando che il “ Re di Montelepre” non è stato il Robin Hood siciliano che toglieva ai ricchi per dare ai poveri ma un bandito che, dal 1943 al 1950, strumentalizzato dal separatismo e dalla mafia è entrato in un gioco più grande di lui da cui, alla fine, è stato stritolato. Certamente anche sulla storia di Giuliano rimangono punti da chiarire. In ogni caso va riconosciuto al Casarrubea il merito di avere cercato di fare luce su uno dei “misteri” italiani e di avere avuto il coraggio di non fermarsi di fronte al lucido pessimismo di Leonardo Sciascia:
“c’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra (…). La prefigurazione (e premonizione ) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere”.
* testo già parzialmente pubblicato su CNTN.