di Francesco Virga
MARINEO. La magistrale prefazione di Leonardo Sciascia al libro di Ignazio Buttitta “Io faccio il poeta”, pubblicato da Feltrinelli nel 1972, opportunamente ricordata da Nuccio, si conclude con un rimando alla poesia “U rancuri” del poeta bagherese e con un polemico riferimento a Neruda.
Ma il nocciolo dell’analisi sciasciana va ricercato nel passo in cui , da un lato si riconosce la radice popolare e contadina dell’ autore di “U rancuri”, dall’altro, con una apparente contraddizione, si afferma che quelle indiscutibili radici non fanno di Buttitta un poeta popolare. Per comprendere meglio il punto di vista di Sciascia, credo che sia utile tenere presente il problematico giudizio di P.P. Pasolini sulle stesso poeta siciliano. Lo scrittore friulano nel ricordare “la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà” fa riferimento ad un famoso testo di Buttitta:
"Questo svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva – svuotamento dovuto all’acculturazione del nuovo potere della società consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più sostanzialmente fascista che la storia ricordi – è esplicitamente il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto “Lingua e dialettu” (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è il siciliano). Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma rimane ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. […]. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere".
Questa cultura, nel senso antropologico del termine, è andata in crisi, incalza Pasolini, soprattutto a causa dell’emigrazione in massa dei giovani siciliani in Germania e nell’Italia del Nord. Simbolo della crisi, “brutale e niente affatto rivoluzionaria”, della propria tradizione culturale è “l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto”:
"La chitarra del dialetto perde una corda al giorno. […]. Chi lo parla è come un uccello in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!)"
Questa poesia, “così perfettamente tragica”, secondo la lettura che ne fa Pasolini, ha un equivalente in un’altra intitolata “U rancuri”, che non lascia adito a speranza alcuna:
"Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro 'rancore', la loro rabbia, la loro esplosione di odio: si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nella casa degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c’è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo".
A questo punto va riportata per esteso la stoccata finale dello scrittore corsaro che, con il suo rigore critico luterano, nulla concede a populismi e buoni sentimenti:
"Tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia, […].Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto da un grande modello inaugurale. Tale modello è ambiguo, ma solo esteriormente. E’ il modello espresso dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi: il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema “affiche” formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta – prima di chiedere di essere giustiziato come borghese – predica in realtà a sé i caratteri che predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all’immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici. Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica.[…]. La figura retorica del popolo che, in una vampa guttusiana, affolla di pugni chiusi e vessilli le sue poesie, diventa perfettamente reale se vista (come non può non essere vista dalla coscienza del poeta che ha scritto “Lingua e dialettu”) come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si parlava il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si voleva la rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva comunque una grazia (e una violenza) da cui ora si abiura". (2)
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Ma il nocciolo dell’analisi sciasciana va ricercato nel passo in cui , da un lato si riconosce la radice popolare e contadina dell’ autore di “U rancuri”, dall’altro, con una apparente contraddizione, si afferma che quelle indiscutibili radici non fanno di Buttitta un poeta popolare. Per comprendere meglio il punto di vista di Sciascia, credo che sia utile tenere presente il problematico giudizio di P.P. Pasolini sulle stesso poeta siciliano. Lo scrittore friulano nel ricordare “la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà” fa riferimento ad un famoso testo di Buttitta:
"Questo svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva – svuotamento dovuto all’acculturazione del nuovo potere della società consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più sostanzialmente fascista che la storia ricordi – è esplicitamente il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto “Lingua e dialettu” (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è il siciliano). Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma rimane ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. […]. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere".
Questa cultura, nel senso antropologico del termine, è andata in crisi, incalza Pasolini, soprattutto a causa dell’emigrazione in massa dei giovani siciliani in Germania e nell’Italia del Nord. Simbolo della crisi, “brutale e niente affatto rivoluzionaria”, della propria tradizione culturale è “l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto”:
"La chitarra del dialetto perde una corda al giorno. […]. Chi lo parla è come un uccello in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!)"
Questa poesia, “così perfettamente tragica”, secondo la lettura che ne fa Pasolini, ha un equivalente in un’altra intitolata “U rancuri”, che non lascia adito a speranza alcuna:
"Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro 'rancore', la loro rabbia, la loro esplosione di odio: si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nella casa degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c’è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo".
A questo punto va riportata per esteso la stoccata finale dello scrittore corsaro che, con il suo rigore critico luterano, nulla concede a populismi e buoni sentimenti:
"Tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia, […].Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto da un grande modello inaugurale. Tale modello è ambiguo, ma solo esteriormente. E’ il modello espresso dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi: il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema “affiche” formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta – prima di chiedere di essere giustiziato come borghese – predica in realtà a sé i caratteri che predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all’immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici. Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica.[…]. La figura retorica del popolo che, in una vampa guttusiana, affolla di pugni chiusi e vessilli le sue poesie, diventa perfettamente reale se vista (come non può non essere vista dalla coscienza del poeta che ha scritto “Lingua e dialettu”) come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si parlava il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si voleva la rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva comunque una grazia (e una violenza) da cui ora si abiura". (2)
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NOTE
1)Sull’ emigrazione siciliana in Germania, il nisseno Stefano Vilardo nel 1975 pubblicherà un libro bellissimo (Tutti dicono Germania, Germania, Garzanti 1975 e Sellerio 2007), arricchito da una succosa nota introduttiva di Leonardo Sciascia, che fa suo il severo giudizio gramsciano sul carattere ozioso di gran parte della letteratura nazionale sull’argomento.
2)Tutte le citazioni di P.P.Pasolini contenute in questo articolo sono tratte da “Scritti corsari”.
1)Sull’ emigrazione siciliana in Germania, il nisseno Stefano Vilardo nel 1975 pubblicherà un libro bellissimo (Tutti dicono Germania, Germania, Garzanti 1975 e Sellerio 2007), arricchito da una succosa nota introduttiva di Leonardo Sciascia, che fa suo il severo giudizio gramsciano sul carattere ozioso di gran parte della letteratura nazionale sull’argomento.
2)Tutte le citazioni di P.P.Pasolini contenute in questo articolo sono tratte da “Scritti corsari”.