Viaggio da Marineo in Tanzania... e storia di un vecchio sognatore


di Elisa Ribaudo
MARINEO. Quest’estate ho vissuto un mese in Tanzania per il campo di lavoro 2011 dell’Associazione Carlo Lwanga di Marineo.
Il campo di lavoro è stato tanto bello quanto duro, diciamo intenso. Si lavora tutto il giorno. Ci sono momenti in cui dici “ma chi me l’ha fatto fare?!”, e altri in cui vorresti che non finisse mai. Ma alla fine, quando l’aereo atterra a Palermo, ti viene da piangere, perché è finito tutto.
Quando si pensa all’Africa, ci vengono in mente paesaggi differenti, animali diversi; ma sono soprattutto le persone ad essere diverse. Siamo abituati sin da piccoli, noi e loro – gli africani, ad affrontare la quotidianità in maniera diversa. Siamo inoltre abituati a relazionarci con il prossimo in maniera del tutto differente dalla loro. Un esempio? L’ospitalità. Tale parola, qui da noi, spesso significa “Ti offro un caffè?!”, anche quando in quel caffè vorremmo metterci del veleno. Bisogna ammetterlo, spesso lo facciamo per pura formalità, affinché poi gli altri non abbiano di che parlar male di noi.
In Africa capita che una persona non abbia nulla da offrirti, né caffè, né un salotto, nulla. Eppure ti apre tutto ciò che ha: il suo cuore. E non lo fa per formalità, bensì perché lo vuole davvero. Vi racconto dunque l’episodio di questa esperienza che più mi è rimasto impresso nell’animo.
È avvenuto nell’ultimo giorno di permanenza a Migoli, un villaggio situato nella savana, sede di una delle cinque missioni tanzaniane delle Suore Collegine. Il prof. Ciro Oliveri mi ha portata a visitare l’orto delle suore – o quel che ne rimane, a causa della siccità – e lì abbiamo incontrato Damiano, l’anziano custode del terreno.
Damiano ha 70 anni, pochi denti, tante rughe. Guadagnerà sui 20 – 25 euro al mese (si tratta dello stipendio medio di un lavoratore tanzaniano). I suoi due figli sono morti prematuramente, lasciandolo con otto nipoti da sfamare. C’è stato un periodo, anche piuttosto lungo, in cui tale famiglia viveva sulla terra nuda, all’addiaccio, senza avere un tetto sulla testa.
Quel giorno Damiano, avendo visto che il prof. Oliveri ed io eravamo nell’orto, non ha esitato ad invitarci a casa sua per quel pomeriggio. Nel pomeriggio, appunto, quando stavamo per uscire, l’abbiamo trovato di fronte la porta della Missione. Ci ha condotti a casa sua, ossia una stanza di pochi metri quadrati, attorniata da una struttura in mattoni di fango, arredata in maniera spartana. Un tavolino di legno grezzo, quattro sedie traballanti, sacchi di patate usati come tende. Era tutto ciò che aveva, insieme a qualche indumento sudicio, il suo piccone, e qualche utensile per la casa. Eppure ci ha accolti con tutto il suo amore, e ha insistito affinché cenassimo da lui, con la sua famiglia. Sì, perché ci avevano preparato pollo e patatine. Sua nipote è corsa in una bottega a comprare una bottiglia d’acqua minerale, perché noi “wageni” (termine che in Swahili indica gli stranieri), ci potessimo sentire sicuri e a nostro agio. Tale gesto dice molte cose.
In condizioni igieniche discutibili, pressoché al buio (perché era giunto il tramonto, e la casa era priva di luce elettrica), ci siamo guardati in silenzio e poi abbiamo accettato. Non si poteva rifiutare, sarebbe stato un affronto da maleducati. Eppure, sapete, quelle piccole e dure cosce di pollo erano molto più buone di quelle che si trovano da noi. Era una cena ricca. Ricca per loro, perché era quanto di meglio potessero offrirci. Nonché ricca per noi, poiché preparata con la gratuità dell’amore sincero. Era buio, è vero, ma riuscivamo distintamente a vedere che Damiano era felice, autenticamente felice, e non poteva esserlo di più. Grande era la sua gioia nell’averci alla sua tavola. Avevamo difficoltà a capirci, ma Damiano se la cavava con l’Inglese (prima dell’indipendenza, in Tanzania vi era la dominazione Inglese, per cui qualche anziano parla ancora tale lingua), quindi riuscivamo a scambiarci qualche pensiero.
Damiano ci chiamava “my sponsor”, in quanto spererebbe che noi marinesi l’aiutassimo a realizzare l’ultimo sogno che gli rimane. Perché sì, a 70 anni, in Africa, gli uomini e le donne hanno ancora la forza di sognare. Damiano sogna di aprire una piccola bottega. Non sa bene neanche lui quali beni vorrebbe commerciare, ma ha tale sogno nel cassetto. In Africa, specie a quell’età, non sai neanche se l’anno prossimo sarai vivo, eppure sogni, e speri. È straordinario.
Damiano è un esempio di forza di volontà e amore gratuito a cui tutti dovremmo ispirarci. Gli ho scattato una foto, che spero potremo inserire nel prossimo calendario dell’associazione. Nell’immagine si vede lui, con la fronte imperlata di sudore, che osserva un punto imprecisato all’orizzonte. L’orizzonte dei suoi sogni.
Sarei felice se il sogno di quell’allegro e caparbio custode dell’orto si dovesse realizzare, perché se lo merita, dopo tutto quello che ha passato.
Molti mi chiedono: “Come è andato il viaggio?”. Io: “Bene”. E poi silenzio. Che devo dire? L’Africa non la si può capire tramite i racconti, in quanto in tal modo manca dei suoi odori, dei suoi colori, degli occhi delle sue persone. Degli occhi di Damiano.