La Spedizione di Garibaldi in Sicilia. Memorie di un volontario a Marineo



Giuseppe Capuzzi, lombardo, uno dei Mille della prima ora, partito con Garibaldi e Bixio da Quarto alla volta di Marsala, narra nel suo diario (La Spedizione di Garibaldi in Sicilia. Memorie di un volontario) le vicende della spedizione, fino a poco dopo la "presa" di Palermo. Riporto le note del 25 maggio 1860, giornata trascorsa dai garibaldini a Marineo per rifocillarsi.
Di là partimmo per Marineo; la strada è faticosa per le eterne salite e discese che vi sono, ma tante furono le deliziose posizioni per cui passammo, che l'anima confortata dalla vista di quei quadri incantevoli, non ci lasciò tempo di sentire la stanchezza. Entrati in paese ci gettammo nelle botteghe
per ristorarci, bevande, uova fresche, acqua di limone, vino annacquato; il dejeuner si fece con pane caldo, appena uscito dal forno e salame o fellata, come dicono i Siciliani. Soddisfatti i bisogni del ventre, entrammo in una chiesa destinata per caserma onde riposarci, ma fu breve la fermata ben presto si uscì per passeggiare.
Il paese è situato sopra il monte, ed ha dal lato di settentrione un castelletto che lo difende. Sotto il riguardo militare la situazione era superba; sotto il riguardo artistico poi offriva una delle più belle scene della natura. All'oriente si erge un'altissima roccia, che sembra di muro, e pare opera d'arte piuttosto che della natura. Ella è isolata e giganteggia sola sui palagi e sulle case; fra i dirupi e le pietre allignano le erbe e qualche frutto selvatico; sulla vetta un albero annoso alza al cielo le braccia. Difficile è ritrarne colle parole la bellezza, e difficilissimo si è il dire qual sensazione facesse sull'anima mia l'incantevole quadro. La vivace fantasia volò a Leucade, volò alla infelice Saffo, ai suoi travagli amorosi, alla sua morte; confuse quella roccia col fatale promontorio, vide la greca fanciulla, collo sguardo rivolto al cielo, prendere un istante da quell'altezza e precipitare.
Il tocco di una mano mi scosse dalla poetica visione, era un amico che mi piombava nella prosa della vita, proponendomi di andare seco lui a desinare in una famiglia, dove altri due compagni l'avevano preceduto per ammanire il cibo. Non mi feci pregare e lo seguii; si mangiò, si bevette e
si rise come al solito, senza darci fastidio del futuro: eravamo contenti dell'oggi, al dimani s'avrebbe pensato poi. Ci avvicinammo a grandi passi a Palermo, là ci aspettava la vittoria o una morte gloriosa, onde v'era motivo di esser lieti; che se qualche funesto presagio tentava di frapporsi alle nostre gioie, gli scoppi d'ilarità e i calici di vino lo soffocavano. Finito il pasto, pieno della idea di essere fra poco nella capitale, mi accorsi che il mio vestito e la mia toilette erano in uno stato orribilmente democratico. E' vero che un Cacciatore delle Alpi non deve badare a tali futilità, ma il desiderio di comparire in modo non sconveniente era così naturale che mi dolse non avere altre vesti da indossare.
Mi recai dal barbiere, o, per riportarmi ingenuamente alla parola che si leggeva a caratteri cubitali sull'insegna della bottega, dal Salassatore, onde farmi tagliare i capelli e radere la barba, che quasi da un mese non era stata toccata dal rasoio: ivi un tormento di nuovo genere mi aspettava.
La mia testa ebbe la sfortuna di capitare nelle mani di uno sventato sottosalassatore, il quale guardando qua e là con due occhiacci spiritati non badava punto al mestier suo, mi tosava
come una pecora e colla estremità della cesoia, che forse da un anno non fu arruotata, pigliando piccole ciocche di capelli me li tirava. A questa operazione dolorosa tenne dietro il taglio
della barba, proceduta da una insaponatura con certa materia di un odore nauseante, ed eseguito con un ferro più somigliante a sega che a rasoio.
Ma qui non finisce la sete delle dolorose sensazioni, che io ebbi a provare nella malaugurata officina di quei salassatori. Un paesano entrò e rivolgendosi al Maestro gli mostrava un dente cariato; vennero scambiate poche parole e furono, cred'io, i patti
del contratto per il pagamento della operazione che andava ad effettuarsi, poi, fatto sedere il cliente male arrivato, il cerretano cavata una piccola tenaglia irruginita gliela ficcò in bocca.
Vi furono tre minuti solenni in cui il povero paziente si dimenò mandando alte grida di dolore, poi il dente uscì: il Salassatore pigliandolo fra le dita insanguinate me lo mostrava come prova della sua valentia. A questo punto la pazienza scappò, mi alzai adirato con la barba affatto recisa, gettai sul tavolo due carlini, e mi ritirai mandando una maledizione a quel tormentatore.
Il restante della giornata si passò andando a zonzo pel paese, poi sull'imbrunire partimmo.