I lumi dei Tropici


Claude Lévi-Strauss compirà cento anni il prossimo 28 novembre. Il mondo accademico lo festeggia, ormai da un anno, con una serie interminabile di iniziative culturali. Ma il modo più semplice per conoscere questo grande antropologo è leggere il suo libro-diario Tristi Tropici: un dettagliato resoconto di una ricerca sul campo tra le popolazioni amazzoniche, un viaggio intessuto di momenti avventurosi e di notti insonni ingannate a riflettere sulla missione dell’etnografo, del suo rapporto con le popolazioni indigene e con la società che lo ha prodotto. Tra gli interessanti temi che hanno animato il dibattito antropologico, uno – ma non il solo – è quello che riguarda l’opposizione tra la dimensione della natura e quella della cultura. L’Occidente, che per lungo tempo ha considerato il “diverso” con disprezzo, adesso sembra tormentato da un rimorso che lo costringe a guardarsi nello specchio delle società “primitive”, nella speranza di potervi trovare comuni radici, di scoprire, nella somiglianza o nella differenza, la propria identità. Visto in questa ottica, l’etnografo è il prodotto della civiltà colonialista, ma anche il simbolo dell’espiazione di colpe, abbagli, errori ed orrori commessi nel nome di questa presunta superiore cultura.
Lévi-Strauss si chiede: è possibile giustificare una «glorificazione di uno stato naturale, al quale l’ordine sociale non avrebbe portato che la corruzione?» Evidentemente non possiamo, poiché – spiega – uomo, linguaggio e società sono indivisibili. Non può esistere uomo senza linguaggio. E nello stesso modo, è inconcepibile un linguaggio senza società. Quindi – per lui – niente idealizzazione della natura e niente romanticismi.
Nel sec. XVIII, l'interesse suscitato dalle culture degli indiani d'America spinse alcuni pensatori e scrittori, tra cui Rousseau a esaltare il modo di vita del “buon selvaggio”, cui si contrapposero coloro che sostenevano essere le culture dei popoli “primitivi” un sottoprodotto dell'umanità.
Lévi-Strauss porta proprio l’esempio di Rousseau, considerato un maestro, un fratello, «il più etnografo dei filosofi», accusato da Diderot – appunto – di idealizzare l’uomo naturale. Rousseau viene difeso dall’antropologo francese, che evidenzia una comunanza di vedute col filosofo nella necessaria distinzione tra concetto di «stato di natura» e «stato di società», che è quanto dire alla dissociazione di natura e cultura.
Così scrive: «Ponendomi questi problemi, mi convinco che non hanno risposta, se non quella che ha dato loro Rousseau: criticato, più che misconosciuto, esposto all’accusa ridicola che gli attribuisce la glorificazione dello stato di natura – dove si può vedere l’errore di Diderot ma non il suo – Rousseau ha detto esattamente il contrario e resta il solo a insegnarci come uscire dalle contraddizioni in cui vaghiamo al seguito dei suoi avversari».
Per Lèvi-Strauss «mai Rousseau ha commesso l’errore di Diderot che consiste nell’idealizzare l’uomo naturale. Egli non rischia mai di confondere lo stato di natura con lo stato di società».
Nel pensiero di Lèvi-Strauss troviamo, quindi, una opposizione tra la dimensione della natura e quella della cultura. La natura è soggetta a regole non modificabili dall’uomo (la fame). La cultura è, invece, il prodotto dell’uomo, viene regolata dalle sue scelte (il cibo). E’ per questo motivo che uomini diversi in luoghi diversi e in tempi diversi producono culture diverse. Anche se in tutte le culture i comportamenti, le lingue e i miti dell’umanità sarebbero riconducibili a pochi schemi fondamentali uguali per tutti (il crudo e il cotto). Questa è la base su cui si fonda – a grandi linee – lo strutturalismo da lui fondato.
Nel Contratto sociale Rousseau prospetta la tesi che bisogna trasformare la società in modo che essa potenzi la libertà dell’individuo: dopo avere annullato tutti gli ordini è possibile scoprire i principi (o – appunto – gli schemi fondamentali) che permettono di edificarne uno nuovo, migliore. Significativo appare anche il modo con cui il filosofo francese introduce nel suo Emilio l’insegnamento religioso. Questo – spiega – dovrebbe avere inizio quando il bambino ha raggiunto l’età della ragione e comincia a sentire il bisogno dell’esistenza di Dio come qualcosa di necessario.
Secondo Rousseau, è dunque il sentimento naturale che dovrebbe guidare il bambino a cogliere il bisogno del divino e la profondità culturale della religione. Allo stesso modo, secondo Lévi-Strauss, è l’immagine della tribù che potrebbe guidare l’uomo occidentale a cogliere il senso concreto di quei valori fondamentali (e rivoluzionari nella Francia di Luigi XVI) quali la libertà, l'uguaglianza, la fraternità: in una parola sola l'amore fra tutti gli uomini.