Marineu sutta ‘na rocca lu mischinu, scarsu d’acqua e abbunnanti di vinu


Vi siete mai chiesti cosa può significare il detto: Marineu sutta ‘na rocca lu mischinu, scarsu d’acqua e abbunnanti di vinu? Questo proverbio è stato raccolto da Giuseppe Pitrè a fine Ottocento e rappresenta l’opposizione acqua vs vino, quindi natura vs cultura, volendo descrivere una località povera di risorse naturali, ma ricca di sapere. O se preferite: ad influenza ellenica.
I quattro elementi primordiali che nell’antichità davano origine al mondo (terra, acqua, fuoco e aria) sono presenti nella bevanda più antica e ricca di cultura della storia umana. E come tutto ciò che sta all’origine della storia dell’uomo, il vino è presente anche nella sfera del sacro. Nella Bibbia lo troviamo già nel libro della Genesi. Noè, appena uscito dall’arca, comincia a fare l’agricoltore e come primo atto culturale, dopo il caos naturale dell’alluvione, pianta una vigna. In questo caso, l’attività agricola è da considerarsi un rito di passaggio: dal disordine della natura all’ordine della cultura.
Van Gennep distinse, all’interno dei riti di passaggio, tre fasi: separazione, margine e aggregazione. Per l’uomo ciò significa: allontanamento dal gruppo di appartenenza, purificazione nell’isolamento, ritorno col nuovo status. Così la terra, che era rimasta 150 giorni inondata dalle acque, con Noè viene riconquistata dall’uomo nuovo, che la scava, la segna con l’aratro, la trasforma e rimette ordine con i filari delle viti. Quello di Noè, quindi, è un atto di rifondazione teso a separare il prima, occupato dalla discendenza di Adamo, maledetta da Dio e distrutta dal diluvio universale, e il dopo, occupato dalla nuova discendenza.
Dopo aver bevuto il vino della sua vigna, Noè, collocato culturalmente ancora su una linea di confine tra le due generazioni, si ubriaca e viene trovato nudo a terra, a quattro zampe come un animale. Bisogna quindi ricoprirlo e riportarlo, in modo corretto, dallo stato selvaggio allo stato puro del dopo-diluvio. La nuova discendenza verrà così decisa in base al corretto comportamento tenuto dal più saggio tra i tre figli (Sem, Iafet e Cam) di fronte al vecchio patriarca. In sostanza, solo chi, grazie alla cultura, nel tempo ha imparato a dominare i processi naturali può volgerli a proprio beneficio e a beneficio degli altri uomini.
Infatti, nella mitologia, il grande e forte Ciclope, che si scontra con il minuscolo Odisseo, viene battuto perché non conosce il corretto uso del bere il vino. Si ubriaca e si addormenta. Per questo può essere accecato.
Nell’antica Grecia c’era una linea netta di confine che separava il poter essere considerati “cittadini” (=maschio, libero, adulto) e non esserlo (=barbaro, schiavo, femmina, bambino).
Uno dei dispositivi che consentiva la verifica di questa condizione sociale era proprio il consumo in pubblico del vino. Le donne e i bambini ne erano esclusi. I barbari non lo conoscevano. Gli schiavi non avevano i soldi per comprarlo. I greci maschi adulti che non andavano nei simposi a berlo in compagnia degli amici erano accusati di essere asociali. Coloro, invece, che andavano, ma eccedevano nel berlo, venivano derisi, perché tornavano a casa traballanti, barcollanti, ondeggianti come scimmie.
Quindi, chi non veniva escluso o deriso, chi non era donna o bambino, chi non era considerato animale era soltanto il “cittadino” greco, sapiente conoscitore e bevitore.
Bere del vino è una pratica che non risponde ad una semplice esigenza naturale, nutritiva, digestiva, diuretica come avviene per l’acqua. E proprio per questo motivo viene considerato un marcatore culturale. Una sorta di termometro che consente di misurare quella linea di confine tra l’universo umano della cultura e quello della natura o della non-cultura. Il vino può rivelarsi, infatti, un pericolo se non tenuto sotto il dovuto controllo, potendo aprire spazi di caos, come abbiamo visto con Noè, che sa piantare la vigna ma si ubriaca, o con Polifemo che sa trasformare il latte, ma non controlla il vino.
Gli ellenici solevano dire: “I siciliani mangiano l’uva acerba” per puntualizzare che erano barbari. Ma nelle città ad influenza greca le cose andavano diversamente. Infatti, era uso presso gli abitanti della antica Makella fare tre brindisi, con il seguente ordine: la prima era la bevuta d’Allegria, la seconda la bevuta d’Amore e la terza era la bevuta di Confusione. Non so che fine abbiano fatto i templi dedicati all’Allegria e alla Confusione, ma so che il bar d’Amore esiste ancora, ed è molto frequentato da giovani e anziani.
Dopo qualche migliaio di anni, ancora oggi gli abitanti di Marineo continuano a frequentare la piazza, ad alzare la coppa e a dire per tradizione: sutta ‘na rocca lu mischinu, scarsu d’acqua e abbunnanti di vinu.