Sciascia vivo


di Francesco Virga
Leonardo Sciascia non smette di suscitare passioni e divisioni. Sono passati vent’anni dalla sua morte eppure ancora oggi il suo nome divide e, per molti, continua ad essere una pietra di scandalo.
Peraltro manca ancora una edizione critica di tutti i suoi numerosi scritti, pubblicati anche in giornali e riviste minori, e la Fondazione a lui intestata, pur godendo di contributi finanziari pubblici, è gestita in modo privatistico, non consentendo a tutti gli studiosi di avere libero accesso agli importanti documenti (in primis l’epistolario) lì conservati, periodicamente utilizzati solo dagli “amici degli amici” per pubblicazioni autorecensite.
Lo scrittore di Racalmuto, oltre che un grande scrittore, è stato un uomo libero e indipendente, impegnato a dire sempre la verità (almeno quella che lui riteneva tale), non stancandosi mai di denunciare il trasformismo di tanti uomini politici ed il conformismo della maggioranza del popolo italiano. Un anno prima di morire scriverà:

“Ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia e di difenderla troppo. (…). Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere molte cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede , la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.” (La Stampa, 6 agosto 1988)
Sciascia con i libri e, soprattutto, con i suoi puntuali e taglienti interventi sulla stampa quotidiana e periodica – di cui avverto la mancanza particolarmente oggi, in un momento in cui tanti intellettuali sembrano diventati ciechi e muti -, è riuscito a togliere la maschera a tutti i poteri costituiti; e, soprattutto, a quel sistema di potere basato sulla intimidazione e sullo sfruttamento dei più deboli, ben collaudato in Sicilia e così spesso utilizzato nella storia dal governo nazionale.
Nel 1958 , a seguito della pubblicazione del racconto “La morte di Stalin”, un recensore lo ammonì a non scherzare su certe cose: “ Da allora – scriverà in un delizioso pezzo pubblicato da L’Ora il 5 maggio 1976 – la mia vocazione a scherzare su tutto è diventata consapevole (…). Ho scherzato sul PCI, sulla Chiesa Cattolica, sulla mafia, sugli scienziati, sul Risorgimento, sulla famiglia. Su tutte le cose su cui la maggioranza degli italiani di scherzare non se la sente. E a volte magari ingenerosamente come, lo riconosco, in quella parte del Contesto che spetta al PCI. E si intende che alla parola scherzare confido un significato di categoria morale ed estetica, un senso liberatorio. Bisogna scherzare sulle cose che si temono o si odiano o si amano. Per liberarsi dalla paura o per giustamente amarle”.
Ma le critiche radicali alle istituzioni totalizzanti non sono state uno scherzo neppure per Leonardo Sciascia. Vorrei ricordare qui, per tutte, la stoccata riservata ad un celebre Cardinale che, nel 1964, in una singolare “lettera pastorale” distribuita in tutte le Chiese dell’isola, additava Danilo Dolci e Tomasi di Lampedusa al pubblico disprezzo, non potendoli bruciare vivi:
“Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno(…); intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento: Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa.” (da La Sicilia come metafora)
Il passo sopra citato non va frainteso. Sciascia, pur non essendo mai stato tenero con la Chiesa Cattolica, non ha mai assunto gli argomenti ed i toni del comune anticlericalismo; anzi, pare che sia stato sempre animato da una profonda religiosità di cui lamentava l’assenza nella storia della Sicilia e dell’Italia intera.
D’altra parte uno dei fili conduttori che lega tutti i suoi scritti, e ne costituisce uno dei leit motiv, è l’elogio dell’eresia, in tutte le sue forme. Sciascia infatti sapeva che nella storia non è stata soltanto la Chiesa a creare i Tribunali dell’Inquisizione e a mandare al rogo gli eretici. Ha scritto infatti:
“L’eresia è di per sè una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. E’ stato anche il partito comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico.”
Per offrire ai lettori di questo giornale solo un piccolo esempio dello stile ironico di questo grande scrittore, rimasto purtroppo senza eredi, riproponiamo un suo delizioso corsivo, pubblicato su L’Ora di Palermo nel lontano 1965, con il titolo La pazzia moralizzatrice. Leggendolo si capirà come anche Sciascia, da giovane, abbia sofferto di questa grave forma di malattia, per fortuna oggi meno diffusa di ieri.

La pazzia moralizzatrice:
«A proposito di quel dipendente dell’INPS, giudicato 17 anni fa da medici, affetto da schizofrenia e particolarmente versato nella mania moralizzatrice, viene spontanea la considerazione che, dentro la società in cui viviamo, forse è da considerarsi propriamente pazzo, clinicamente pazzo chi veramente crede di poter moralizzare o soltanto di poter concorrere, quali che siano i mezzi di cui dispone, ad un’opera di moralizzazione. Uno scrittore francese dell’Ottocento, la cui opera è oggi in processo di rivalutazione, ha scritto dei racconti in cui principi morali che allora sembravano inamovibili venivano relativizzati e rovesciati per cui in un mondo di prostitute si stabiliva una morale da prostitute e in un mondo di ladri una morale da ladri. E allora sarà parsa una specie di fantascienza oltre che un attentato ai buoni costumi. Oggi si può dire che ci siamo già. E ricordo con un certo sgomento (affetto come sono di mania moralizzatrice) la frase che ho sentito pronunciare da un giovane, con serietà e convinzione: “La pena mia non è che si ruba, è che io non mi ci trovo in mezzo”. Grande frase, da scrivere sulle pedagogiche bandiere». (Leonardo Sciascia)