Dalle sillabe alle sibille...


di Nuccio Benanti
In Elsa Guggino coesistono almeno due aspirazioni. Quella che fa capo ad un progetto scientifico di ricerca sul campo, portato ininterrottamente in Sicilia (e in parte anche in Calabria), a partire dagli anni Sessanta, sulla scia della scuola che ha come capostipite Giuseppe Pitrè, alla quale dichiara di appartenere.
E l’altra di tipo affettivo-esistenziale, che fa da sfondo ad una riflessione più esplicitamente estetica e morale. Nel libro Il corpo è fatto di sillabe (Sellerio, 1993) scrive infatti: «Man mano che prendeva corpo l’idea generale del libro e poi durante la sua stesura, soprattutto nei primi tempi avevo preso l’abitudine di annotare qualche pensiero vagante, sia che riguardasse i miei disagi a fronte e ai margini del lavoro progettato, sia che entrasse nel merito di argomenti che prendevo in esame».
Come il “corpo” citato nel titolo, anche il libro sembra fatto di sillabe, scomponibile in unità foniche minime dotate di un proprio significato. Sono le frasi appuntate nel suo quaderno: quelle degli autori citati, le parole delle persone incontrate, i suoi commenti, le riflessioni personali. Sono soprattutto i dubbi che assillano l’antropologa di fronte all’oggetto di studio (le persone incontrate): lei spesso è costretta a discolparsi di fronte a certe “forzature” dichiarando di «operare in nome della scienza. E qui: ma scienza per chi?». Il mondo della scrittura di Elsa Guggino trova, dunque, i suoi motivi nelle esperienze, nei sentimenti, nei dubbi che da sempre accompagnano l’uomo (in questo caso la donna di scienza e di lettere). E il suo è un disagio provato di fronte a chi pretende di capire, ordinare, classificare l’universo con le proprie categorie di pensiero.

Alla scrittura non resta, quindi, che rappresentare i dubbi dell’autrice: l’impossibilità per la “donna di scienza” di giungere alla conoscenza, ad Eva di «cibarsi impunemente dei frutti del mitico albero». Dal suo diario, ossia corpo cartaceo fatto di sillabe, lei estrae gli oggetti, gli incontri, lo scorrere del tempo, frammenti di storie, che peraltro rinviano sempre al disagio e alle questioni «di ordine metodologico o epistemologico». Come spiegare o soltanto descrivere i fatti a noi estranei utilizzando i nostri modi di pensiero e i nostri concetti?
Tuttavia la visione dolorosa della sconfitta della scienza lascia aperta a tratti la possibilità di un varco, di un’occasione di speranza: oltre al confine esiste forse una rivelazione, una verità con la quale in qualche modo si può entrare in contatto. In Fate, sibille e altre strane donne (Sellerio, 2006) la rivelazione è l'incontro con «un sistema di credenze di ascendenza millenaria che insiste nell'odierno immaginario magico-religioso siciliano». Si tratta di strane figure femminili di natura extraumana che si intrecciano al vivere degli uomini.
L’antropologa ha solo esperienze momentanee, incerte, indefinibili di tale possibilità di contatto. Sa che si sta confrontando con un modo diverso di concepire il mondo e la vita. Ma sente anche che qualcuno potrebbe superare quel varco: sa che aldilà ci sono figure (sibille) che lanciano messaggi (sillabe) da un’altra dimensione (probabilmente immaginaria ideale irreale), ma da questo mondo.