di Francesco Virga
Il 24 aprile 2010 al Castello Beccadelli di Marineo, nel corso di un vivace e partecipato dibattito, è stato presentato il libro (e l’audiovisivo ad esso collegato) intitolato La memoria, gli attrezzi e gli antichi mestieri della terra.
L’opera - frutto dell’attiva collaborazione tra il CE.S.VO.P (Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo), il Circolo AUSER “Chinnici” e la Scuola Media di Misilmeri - ricostruisce fedelmente le condizioni di lavoro che hanno contrassegnato per secoli la vita di paesi come il nostro.
Il Centro Studi e Iniziative di Marineo (Ce.S.I.M) ha deciso di far conoscere alla comunità locale il lavoro pregevole realizzato nel Comune limitrofo per dare un contributo alla realizzazione di un Museo e di una Banca della Memoria nel nostro paese.
Il dibattito è stato introdotto dal Sindaco Franco Ribaudo che si è impegnato, a nome dell’Amministrazione che rappresenta, a realizzare in tempi brevi, all’interno dell’ala del Castello recentemente restaurato, il Museo della civiltà contadina già previsto nella pubblicazione I beni culturali a Marineo, curata trent’anni fa da chi scrive. La Dirigente Scolastica Prof.ssa Rita La Tona ha evidenziato come il libro e l’audiovisivo siano stati frutto della felice sinergia tra la Scuola Media Statale e il Circolo AUSER di Misilmeri. Il Dr. Franco Vitali ha parlato del lavoro svolto presso la Scuola Elementare di Marineo, in stretta collaborazione con le insegnanti Maria Barbaccia, Cira Di Silvestre e Mariella Spataro, che potrebbe avere come esito finale una pubblicazione simile a quella realizzata a Misilmeri. Il Prof. Carmelo Fascella ha presentato una stimolante ed accurata relazione, che riproponiamo di seguito, anche per riaprire su questo blog il dibattito strozzato dai tempi stretti concessici dalla Sovrintendenza.
Non sono rimasto sorpreso dalla scarsa partecipazione dei giovani all’iniziativa. Già da alcuni commenti pubblicati da Provocupuscolo emergevano i dubbi e le perplessità di tanti giovani. Beninteso, alcuni di questi hanno la mia piena comprensione e condivisione. La stessa parola MUSEO sa di vecchio e stantio ed è vero che in Sicilia ci sono già tanti musei poco amati e frequentati dai giovani. Ci sono però musei e musei. Non so quanti di voi conoscono la CASA MUSEO DI PALAZZOLO ACREIDE (SR), creata da Antonino Uccello. Anche se mi rendo conto che non è facile riprodurre a Marineo un museo simile, è questo il modello di museo a cui mi riferisco e che propongo. Un museo vivo che si rinnova continuamente.
Relazione del 24/04/2010
La memoria, gli attrezzi
e gli antichi mestieri della terra
di Carmelo Fascella
di Carmelo Fascella
Casualmente la presentazione di questo libro è caduta il 24 aprile, vigilia dell’anniversario della Liberazione. E’ casuale certo, ma rispetto a quello di cui discutiamo, questa data non è indifferente. Nella memoria degli anziani gli anni del fascismo sono vivi e caratterizzati come tempi duri e difficili. Anni nei quali la vita dei braccianti era priva di qualsiasi garanzia e diritto. Anni nei quali la scuola relegava agli ultimi posti i figli dei braccianti e li costringeva ad imparare le “verità” del regime. Anni nei quali era proibito protestare, scioperare, anche solo lamentarsi di quelle condizioni di lavoro massacranti e senza alcuna soddisfazione non solo economica ma anche morale e sociale. Il predominio dei proprietari terrieri e dei baroni era assoluto e la mafia spadroneggiava ovunque. La liberazione dal fascismo e gli anni del dopoguerra furono densi di promesse e di speranze. Il movimento contadino segnò una riscossa per quei ceti popolari che avevano subito l’arroganza e la prepotenza del regime fascista. Forse proprio per questo la violenza degli agrari e della mafia si fece ancora più feroce e spietata. Ancora, del resto, neppure gli storici hanno detto una parola definitiva su quegli anni di stragi e di omicidi mirati contro dirigenti politici e sindacali del movimento contadino. Ricordiamo qui Accursio Miraglia, Placido Rizzotto, Epifanio Li Puma. Ma la lista è purtroppo lunga. Dagli archivi americani e inglesi, finora segreti, emergono nuovi documenti che confermano i sospetti di una santa alleanza in funzione antipopolare che in Sicilia ha portato alla strage di Portella della Ginestra e ad altri fatti a tutti noti.
Cito queste vicende all’inizio del mio intervento perché mi interessa ricostruire un clima e un quadro storico di quegli anni, nei quali si snoda il racconto degli anziani. La loro esperienza di lavoro e di vita si svolge proprio tra il fascismo e gli anni del dopoguerra. Ma essi, come hanno magistralmente raccontato ai nostri studenti, non si sono rassegnati a quelle condizioni di vita, non le hanno accettate supinamente.
Spesso anche noi docenti siamo abituati, a torto, a raccontare la storia della Sicilia come una storia di uomini curvi nel lavoro della terra; di donne col fazzoletto nero in testa; una terra piena di ignoranza e superstizione. Uomini e donne incapaci di ribellarsi e di conquistare quella libertà e quei diritti che magari altrove venivano conquistati. Ebbene proprio la testimonianza di questi uomini, che sono presenti stasera, ci dimostra che non è proprio così. Che da questa terra sono scaturite lotte politiche e sindacali che hanno determinato cambiamenti veri e sostanziali. Spesso queste lotte sono state tradite da governi complici della mafia, o da gruppi dirigenti opportunisti, incapaci di rappresentare fino in fondo le esigenze di chi li ha eletti.
Io penso che questo messaggio, di una Sicilia attiva, di un popolo combattivo e cosciente, dovrebbe essere attualizzato e trasmesso alle nuove generazioni, ma anche alla mia generazione e ai trentenni che spesso si trovano confusi e incapaci di prendere iniziative forti per ribaltare una situazione che ci vede succubi e perdenti.
Lottare per difendere i propri diritti, per affermare principi (altra frase degli anziani), è ancora oggi necessario e indispensabile, in un momento storico in cui questi diritti vengono minacciati da una classe politica regionale e nazionale arrogante, reazionaria e razzista. Io credo che se non si coglie questo nocciolo dal racconto degli anziani, allora si tradisce il loro messaggio e i sacrifici che essi hanno fatto per sé stessi e per noi. Ed è proprio quello che noi abbiamo cercato di fare con il nostro progetto. Non ci interessava una storia fredda, una storia come pura trasmissione di nozioni, come una serie di aneddoti. Né ci interessavano gli aspetti folkloristici o nostalgici, così come non ci interessava la storia dei nobili, dei castelli e dei loro proprietari. Ci interessava e ci interessa invece la storia vera, concreta, materiale e civile della popolazione e in Sicilia la popolazione era in gran parte quella dei braccianti o degli zolfatari o dei pescatori.
Nel nostro territorio l’agricoltura è sempre stata la principale attività economica. Attorno ad essa ruotava tutta la vita. Ed è proprio sull’agricoltura che noi abbiamo concentrato la nostra attenzione, perché ci sembrava l’argomento migliore per restituire ai nostri studenti della scuola media di Misilmeri, una memoria che essi hanno perduto e che rischia definitivamente di scomparire.
Nella mia introduzione al volume citavo il grande storico francese Fernand Braudel quando nel suo famoso libro Il Mediterraneo, parlava della triade grano - ulivo - vite, come delle tre colture che caratterizzano e accomunano tutti i popoli del mare nostrum. Ricordo quella bellissima immagine che egli usa quando dice che a Napoli come a Palermo come ad Atene o a Tunisi, non è raro vedere un operaio a metà giornata, seduto su un muretto di pietra mentre mangia pane e olio e lo accompagna con un sorso di vino. A questo noi abbiamo aggiunto anche la coltura della manna e degli agrumi. Tutte colture che erano ed in parte restano tipiche del nostro territorio. Certo la manna o il frumento non vengono più coltivati a Misilmeri e anche gli agrumi e la vite hanno avuto una fortissima crisi negli ultimi anni, anche a causa della concorrenza di prodotti che arrivano dalla Spagna o dal nord Africa. Un fenomeno che conosciamo bene e che sta determinando l’abbandono progressivo della terra. Come dicevano gli anziani: perché un giovane oggi dovrebbe investire il suo futuro nell’agricoltura? Con quali prospettive? Con quali speranze? Quale genitore consiglierebbe ad un ragazzo di abbandonare gli studi per dedicarsi alla terra?
Ma questo progressivo allontanamento dalle campagne determina fenomeni sociali complessi che sono stati studiati da antropologi e sociologi e che potrebbero essere riassunti con la parola “sradicamento”. Le nuove generazioni cioè hanno perso il contatto con la terra, con il loro passato, con le loro radici. E questa perdita non ha a che fare solo con la memoria, non è soltanto perdita di conoscenze tecniche, ma è anche perdita di valori, di cultura, di ideali. Quegli ideali e quella cultura che nel mondo contadino nascevano dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, dalla necessità che avevano i braccianti di organizzarsi per sconfiggere l’arroganza dei proprietari terrieri e della mafia, per costringere lo stato a dotarsi di una legislazione sociale più democratica. Oggi tutto questo è venuto meno. Le nuove generazioni, gli adolescenti che noi oggi incrociamo come insegnanti, come genitori, come zii o nonni, hanno perduto la dimensione della lotta e dell’impegno politico e sindacale. E non perché non ci sarebbe bisogno, attenzione. Perché in realtà li aspetta un futuro altrettanto difficile di quello che avevano i giovani di 60 o 70 anni fa. Un futuro fatto di lavoro precario, di lavoro nero e sottopagato, o di andare appresso al politico di turno in attesa che questi gli dia la possibilità di lavorare. Ecco, noi e soprattutto gli anziani che di questo sono consapevoli, abbiamo cercato di trasmettere ai giovani l’idea che per migliorare c’è bisogno dello studio, della fatica, della lotta e dell’intelligenza, che la dignità a volte viene prima di ogni altra cosa. E questo lo abbiamo fatto attraverso la testimonianza diretta degli anziani. Certo il nostro è stato possibilmente come un faro che si accende e si spegne nella vita dei ragazzi, tuttavia abbiamo l’ambizione di credere che essi ricorderanno quel faro, ricorderanno quell’esperienza vissuta a scuola insieme agli anziani. Se non altro perchè non erano le solite lezioni, con i soliti professori, i soliti libri e così via.
Leggendo il libro, che è stato curato da Emanuela Iannazzo, è possibile scoprire tanti aspetti della vita di un tempo che spesso non solo gli adolescenti sconoscono, ma anche noi quarantenni sconosciamo. Io ricordo che durante gli incontri con gli anziani, che duravano più di due ore, non solo i ragazzi ascoltavano affascinati e per niente annoiati, ma anche gli adulti che eravamo presenti. Anche a noi queste persone hanno dato molto e ci hanno fatto scoprire una Misilmeri che non conoscevamo.
E vorrei qui per non abusare della vostra pazienza, citare soltanto due questioni, anche per cercare di stimolare la vostra curiosità verso la lettura del libro. Una nasce proprio dalle domande degli studenti. Uno di loro ha chiesto infatti: “A che età avete cominciato a lavorare?”
Bè queste persone hanno cominciato a lavorare da bambini, la loro infanzia è durata poco. Già a nove o dieci anni erano nei campi al seguito degli adulti per guadagnarsi le poche lire di paga. E nonostante la loro età, gli adulti non erano teneri con loro e pretendevano ch’essi lavorassero senza pause e senza riposo. Una condizione che negava loro il diritto al gioco, allo studio, ad uno sviluppo psicofisico adeguato. Una condizione di sfruttamento che oggi si ripete in quelle zone del mondo dove i bambini sono costretti a lavorare per le grandi multinazionali americane od europee.
L’altra questione che volevo soltanto sfiorare, riguarda la profonda ingiustizia di quel sistema politico e sociale, quello fascista prima e quello dell’immediato dopoguerra: “Come avveniva il reclutamento dei lavoratori?”
Ebbene la mattina i braccianti andavano nelle piazze e aspettavano l’arrivo dei proprietari o dei campieri o dei gabellati. Erano essi a decidere chi doveva lavorare e chi no. Se decidevano di lasciare a casa qualcuno, perché magari quello aveva fatto uno sgarbo, o aveva osato protestare perché la paga era misera o perché le ore di lavoro erano troppe, bè questi signori avevano il potere di farlo. Non c’era nessuna legge che difendesse i braccianti. Noi oggi sappiamo che questa realtà così violenta e così ingiusta è ancora presente. Ancora oggi ci sono braccianti e lavoratori costretti a sottoporsi a questa selezione fatta da quelli che vengono chiamati “caporali”. Magari questi braccianti e operai oggi hanno la pelle più scura, vengono da altri paesi, ma la realtà è la stessa, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è sempre quello e grida giustizia.
Questi esempi ci fanno capire che il racconto degli anziani non è solo storico, ma riguarda il presente, il nostro presente. Perché quelle condizioni di vita che essi hanno conosciuto e contro cui si sono battuti, sono ancora qui e ci minacciano. Minacciano anche noi, i bianchi, quelli ricchi. Anche a noi vogliono togliere la scuola pubblica, il diritto di sciopero, l’acqua pubblica per darla ai privati; anche a noi vogliono togliere il diritto a non essere licenziati senza un motivo giusto. La loro testimonianza anche per questo è importante e attuale.
Il valore della memoria e la scoperta della storia recente attraverso le testimonianze degli anziani, sta diventando ormai un fatto nazionale. In molte città d’Italia, del sud come del centro nord, si moltiplicano le iniziative simili alla nostra. Ci si rende conto che il patrimonio di conoscenze che questi anziani conservano, deve essere raccolto e salvaguardato, fatto conoscere. In questo lavoro ci danno una mano i mezzi tecnici. La possibilità di registrare la voce degli anziani, i loro volti e i loro gesti ci consente di conservare non solo le cose di cui parlano, ma anche la profonda umanità e simpatia dei loro occhi e dei loro visi. Io ricordo per esempio come essi maneggiavano gli attrezzi, davanti agli studenti. Quegli attrezzi che abbiamo voluto portare a scuola proprio per rendere più vivo il racconto. Le loro mani, così piene di rughe, già da sole basterebbero a raccontare la storia del lavoro contadino. E i ragazzi rimanevano affascinati da tutto questo, sia quelli che per tradizione familiare hanno un legame con l’agricoltura, sia quelli che non avevano mai visto o sentito niente prima di quel momento.
Ma forse la cosa più importante che ci permettono i registratori, è quella di riuscire a conservare la lingua, quel “dialetto siciliano” che è destinato inesorabilmente a scomparire. Un dialetto che a quei tempi era una vera lingua perché rappresentava ed esprimeva quel mondo agricolo. Una ricchezza di vocaboli e di espressioni che l’italiano non riesce a rendere o a tradurre senza perderne il colore e la bellezza. Nel libro abbiamo tradotto il siciliano, cercando di mantenere dove possibile le stesse strutture sintattiche e lo stesso lessico, perché volevamo che chiunque potesse leggere e comprendere il racconto degli anziani. Abbiamo poi inserito dei Glossari sugli attrezzi e sui loro nomi e un piccolo vocabolario. Ma nel dvd e in tutte le ore di registrazione, la lingua siciliana emerge con la sua freschezza e ricchezza. E ci sembra questo già di per sé un grande risultato e un grande obiettivo raggiunto, perché la lingua non è solo uno strumento per comunicare, ma anche un modo di vedere il mondo, di interpretarlo e di conoscerlo. Senza la conoscenza e la conservazione della lingua, non si riuscirebbe più a comprendere quel passato nel suo vero valore, perché verrebbe inevitabilmente distorto da un linguaggio, come il nostro, che non è più adatto a rappresentare quel mondo.
Un altro aspetto del nostro progetto che vorrei sottolineare, riguarda il contributo dell’artista Giusto Sucato, che non è qui con noi stasera a causa di un altro impegno. Egli ha incontrato i ragazzi fornendo loro il punto di vista di un artista che ha rappresentato il mondo contadino attraverso le sue opere. In particolare ha parlato di architettura popolare e di alcune caratteristiche delle case. Tutte cose raccolte nel libro e che hanno dato ai ragazzi la possibilità di approfondire la loro conoscenza del passato e nello stesso tempo di conoscere un artista del nostro territorio. Io ricordo a questo proposito quando Giusto Sucato parlava di “porte all’annate”, di pavimenti rattoppati, di tetti fatti con le canne, o degli intonaci fatti con calce e azzolo. Oppure del fumo dei pentoloni usato per fare lo zoccoletto. O ancora di quel foro in fondo alle porte, chiamato “attaloro” che serviva a far entrare e uscire il gatto. Dato che a quei tempi il gatto era non solo un animale di compagnia, ma utile perché contribuiva a tenere sotto controllo la proliferazione dei topi. Nelle case, infatti, le famiglie tenevano le loro piccole provviste, o spesso vi abitavano anche animali come conigli, galline, maiali, cani. Dunque vi era la necessità di avere un predatore come il gatto che attraverso questo foro poteva entrare ed uscire liberamente dalla casa.
Insomma come potete capire bene, gli aspetti e le curiosità sono tante e ci rimandano al libro.
Il nostro progetto ha avuto un grande successo. Questo lo dobbiamo dire senza falsa modestia. Un successo possibile solo perché è stata un’azione corale che ha coinvolti tanti soggetti, dal Comune di Misilmeri, alla scuola, dalla Camera del Lavoro, alle cooperative sociali, al Cesvop. L’Auser di Misilmeri con tutti i suoi volontari è stata l’anima del progetto. Le mille e più copie del libro che il CESVOP ci ha fornito, hanno fatto il giro del paese e sono andate oltre il comune di Misilmeri, come testimonia l’incontro di stasera qui a Marineo. Il filmato, curato da me e da Vito Tursi, viene mandato ancora oggi da TSE e sono tanti i cittadini che lo hanno apprezzato e richiesto. D’altro canto la recente uscita del film di Tornatore, Baaria, ha per certi versi incrociato il nostro lavoro, perché anche in quel film si raccontano vicende del tutto simili a quelle che i nostri anziani ci raccontano. Il territorio è sempre quello, quindi niente di strano che ci possano essere delle analogie.
Ma per concludere io vorrei ribadire che il successo di questo progetto, il suo fascino, è stato in gran parte merito degli anziani e degli studenti. Noi che lo abbiamo organizzato in realtà ci abbiamo messo poco. Anzi, a volte con la nostra imperizia e inesperienza, abbiamo perso del materiale importante. Come quando durante l’incontro di Portella di Mare, abbiamo registrato a microfono spento, perdendo nei fatti il racconto dell’Ulivo e di tutta la lavorazione dell’olio, che a quei tempi era molto diversa da quella attuale. Quel racconto c’è nel libro, ma non c’è nel dvd.
Non è stato indifferente, anzi io credo che sia stato determinante, il fatto che La Banca della Memoria, sia stato realizzato a scuola. La scuola media di Misilmeri è stata nei fatti la principale protagonista del progetto. La scuola come struttura, come aule, come ambiente, come personale scolastico, come insegnanti che ci hanno aiutato, come il dirigente scolastico che ci ha seguiti e incoraggiati. Ma la scuola soprattutto come gli studenti. Più di 120 alunni hanno partecipato agli incontri ed hanno fatto domande, ricerche, prodotto testi, poesie, disegni, cartelloni. Lavori che abbiamo inserito nel libro e nel dvd. Senza di loro, io credo che La Banca della Memoria, non sarebbe stata la stessa cosa. Un conto è raccontarci le cose tra di noi, come stiamo facendo stasera, altra cosa è però rapportarsi con ragazzi di 12-13 anni, che vivono in un mondo completamente diverso dal nostro e da quello degli anziani. Per questo noi ci auguriamo che progetti come questo possano realizzarsi anche in altri comuni e che si possa fare un vero e proprio museo della memoria di questo territorio. Un museo che completi quello mirabile di Godranopoli realizzato grazie all’indimeticato Francesco Carbone, mettendo assieme gli attrezzi con le testimonianze dirette dei protagonisti. Credo che questo dovrebbe essere un obiettivo e un impegno di amministrazioni lungimiranti, che hanno a cuore il futuro di questa terra.
Cito queste vicende all’inizio del mio intervento perché mi interessa ricostruire un clima e un quadro storico di quegli anni, nei quali si snoda il racconto degli anziani. La loro esperienza di lavoro e di vita si svolge proprio tra il fascismo e gli anni del dopoguerra. Ma essi, come hanno magistralmente raccontato ai nostri studenti, non si sono rassegnati a quelle condizioni di vita, non le hanno accettate supinamente.
Spesso anche noi docenti siamo abituati, a torto, a raccontare la storia della Sicilia come una storia di uomini curvi nel lavoro della terra; di donne col fazzoletto nero in testa; una terra piena di ignoranza e superstizione. Uomini e donne incapaci di ribellarsi e di conquistare quella libertà e quei diritti che magari altrove venivano conquistati. Ebbene proprio la testimonianza di questi uomini, che sono presenti stasera, ci dimostra che non è proprio così. Che da questa terra sono scaturite lotte politiche e sindacali che hanno determinato cambiamenti veri e sostanziali. Spesso queste lotte sono state tradite da governi complici della mafia, o da gruppi dirigenti opportunisti, incapaci di rappresentare fino in fondo le esigenze di chi li ha eletti.
Io penso che questo messaggio, di una Sicilia attiva, di un popolo combattivo e cosciente, dovrebbe essere attualizzato e trasmesso alle nuove generazioni, ma anche alla mia generazione e ai trentenni che spesso si trovano confusi e incapaci di prendere iniziative forti per ribaltare una situazione che ci vede succubi e perdenti.
Lottare per difendere i propri diritti, per affermare principi (altra frase degli anziani), è ancora oggi necessario e indispensabile, in un momento storico in cui questi diritti vengono minacciati da una classe politica regionale e nazionale arrogante, reazionaria e razzista. Io credo che se non si coglie questo nocciolo dal racconto degli anziani, allora si tradisce il loro messaggio e i sacrifici che essi hanno fatto per sé stessi e per noi. Ed è proprio quello che noi abbiamo cercato di fare con il nostro progetto. Non ci interessava una storia fredda, una storia come pura trasmissione di nozioni, come una serie di aneddoti. Né ci interessavano gli aspetti folkloristici o nostalgici, così come non ci interessava la storia dei nobili, dei castelli e dei loro proprietari. Ci interessava e ci interessa invece la storia vera, concreta, materiale e civile della popolazione e in Sicilia la popolazione era in gran parte quella dei braccianti o degli zolfatari o dei pescatori.
Nel nostro territorio l’agricoltura è sempre stata la principale attività economica. Attorno ad essa ruotava tutta la vita. Ed è proprio sull’agricoltura che noi abbiamo concentrato la nostra attenzione, perché ci sembrava l’argomento migliore per restituire ai nostri studenti della scuola media di Misilmeri, una memoria che essi hanno perduto e che rischia definitivamente di scomparire.
Nella mia introduzione al volume citavo il grande storico francese Fernand Braudel quando nel suo famoso libro Il Mediterraneo, parlava della triade grano - ulivo - vite, come delle tre colture che caratterizzano e accomunano tutti i popoli del mare nostrum. Ricordo quella bellissima immagine che egli usa quando dice che a Napoli come a Palermo come ad Atene o a Tunisi, non è raro vedere un operaio a metà giornata, seduto su un muretto di pietra mentre mangia pane e olio e lo accompagna con un sorso di vino. A questo noi abbiamo aggiunto anche la coltura della manna e degli agrumi. Tutte colture che erano ed in parte restano tipiche del nostro territorio. Certo la manna o il frumento non vengono più coltivati a Misilmeri e anche gli agrumi e la vite hanno avuto una fortissima crisi negli ultimi anni, anche a causa della concorrenza di prodotti che arrivano dalla Spagna o dal nord Africa. Un fenomeno che conosciamo bene e che sta determinando l’abbandono progressivo della terra. Come dicevano gli anziani: perché un giovane oggi dovrebbe investire il suo futuro nell’agricoltura? Con quali prospettive? Con quali speranze? Quale genitore consiglierebbe ad un ragazzo di abbandonare gli studi per dedicarsi alla terra?
Ma questo progressivo allontanamento dalle campagne determina fenomeni sociali complessi che sono stati studiati da antropologi e sociologi e che potrebbero essere riassunti con la parola “sradicamento”. Le nuove generazioni cioè hanno perso il contatto con la terra, con il loro passato, con le loro radici. E questa perdita non ha a che fare solo con la memoria, non è soltanto perdita di conoscenze tecniche, ma è anche perdita di valori, di cultura, di ideali. Quegli ideali e quella cultura che nel mondo contadino nascevano dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, dalla necessità che avevano i braccianti di organizzarsi per sconfiggere l’arroganza dei proprietari terrieri e della mafia, per costringere lo stato a dotarsi di una legislazione sociale più democratica. Oggi tutto questo è venuto meno. Le nuove generazioni, gli adolescenti che noi oggi incrociamo come insegnanti, come genitori, come zii o nonni, hanno perduto la dimensione della lotta e dell’impegno politico e sindacale. E non perché non ci sarebbe bisogno, attenzione. Perché in realtà li aspetta un futuro altrettanto difficile di quello che avevano i giovani di 60 o 70 anni fa. Un futuro fatto di lavoro precario, di lavoro nero e sottopagato, o di andare appresso al politico di turno in attesa che questi gli dia la possibilità di lavorare. Ecco, noi e soprattutto gli anziani che di questo sono consapevoli, abbiamo cercato di trasmettere ai giovani l’idea che per migliorare c’è bisogno dello studio, della fatica, della lotta e dell’intelligenza, che la dignità a volte viene prima di ogni altra cosa. E questo lo abbiamo fatto attraverso la testimonianza diretta degli anziani. Certo il nostro è stato possibilmente come un faro che si accende e si spegne nella vita dei ragazzi, tuttavia abbiamo l’ambizione di credere che essi ricorderanno quel faro, ricorderanno quell’esperienza vissuta a scuola insieme agli anziani. Se non altro perchè non erano le solite lezioni, con i soliti professori, i soliti libri e così via.
Leggendo il libro, che è stato curato da Emanuela Iannazzo, è possibile scoprire tanti aspetti della vita di un tempo che spesso non solo gli adolescenti sconoscono, ma anche noi quarantenni sconosciamo. Io ricordo che durante gli incontri con gli anziani, che duravano più di due ore, non solo i ragazzi ascoltavano affascinati e per niente annoiati, ma anche gli adulti che eravamo presenti. Anche a noi queste persone hanno dato molto e ci hanno fatto scoprire una Misilmeri che non conoscevamo.
E vorrei qui per non abusare della vostra pazienza, citare soltanto due questioni, anche per cercare di stimolare la vostra curiosità verso la lettura del libro. Una nasce proprio dalle domande degli studenti. Uno di loro ha chiesto infatti: “A che età avete cominciato a lavorare?”
Bè queste persone hanno cominciato a lavorare da bambini, la loro infanzia è durata poco. Già a nove o dieci anni erano nei campi al seguito degli adulti per guadagnarsi le poche lire di paga. E nonostante la loro età, gli adulti non erano teneri con loro e pretendevano ch’essi lavorassero senza pause e senza riposo. Una condizione che negava loro il diritto al gioco, allo studio, ad uno sviluppo psicofisico adeguato. Una condizione di sfruttamento che oggi si ripete in quelle zone del mondo dove i bambini sono costretti a lavorare per le grandi multinazionali americane od europee.
L’altra questione che volevo soltanto sfiorare, riguarda la profonda ingiustizia di quel sistema politico e sociale, quello fascista prima e quello dell’immediato dopoguerra: “Come avveniva il reclutamento dei lavoratori?”
Ebbene la mattina i braccianti andavano nelle piazze e aspettavano l’arrivo dei proprietari o dei campieri o dei gabellati. Erano essi a decidere chi doveva lavorare e chi no. Se decidevano di lasciare a casa qualcuno, perché magari quello aveva fatto uno sgarbo, o aveva osato protestare perché la paga era misera o perché le ore di lavoro erano troppe, bè questi signori avevano il potere di farlo. Non c’era nessuna legge che difendesse i braccianti. Noi oggi sappiamo che questa realtà così violenta e così ingiusta è ancora presente. Ancora oggi ci sono braccianti e lavoratori costretti a sottoporsi a questa selezione fatta da quelli che vengono chiamati “caporali”. Magari questi braccianti e operai oggi hanno la pelle più scura, vengono da altri paesi, ma la realtà è la stessa, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è sempre quello e grida giustizia.
Questi esempi ci fanno capire che il racconto degli anziani non è solo storico, ma riguarda il presente, il nostro presente. Perché quelle condizioni di vita che essi hanno conosciuto e contro cui si sono battuti, sono ancora qui e ci minacciano. Minacciano anche noi, i bianchi, quelli ricchi. Anche a noi vogliono togliere la scuola pubblica, il diritto di sciopero, l’acqua pubblica per darla ai privati; anche a noi vogliono togliere il diritto a non essere licenziati senza un motivo giusto. La loro testimonianza anche per questo è importante e attuale.
Il valore della memoria e la scoperta della storia recente attraverso le testimonianze degli anziani, sta diventando ormai un fatto nazionale. In molte città d’Italia, del sud come del centro nord, si moltiplicano le iniziative simili alla nostra. Ci si rende conto che il patrimonio di conoscenze che questi anziani conservano, deve essere raccolto e salvaguardato, fatto conoscere. In questo lavoro ci danno una mano i mezzi tecnici. La possibilità di registrare la voce degli anziani, i loro volti e i loro gesti ci consente di conservare non solo le cose di cui parlano, ma anche la profonda umanità e simpatia dei loro occhi e dei loro visi. Io ricordo per esempio come essi maneggiavano gli attrezzi, davanti agli studenti. Quegli attrezzi che abbiamo voluto portare a scuola proprio per rendere più vivo il racconto. Le loro mani, così piene di rughe, già da sole basterebbero a raccontare la storia del lavoro contadino. E i ragazzi rimanevano affascinati da tutto questo, sia quelli che per tradizione familiare hanno un legame con l’agricoltura, sia quelli che non avevano mai visto o sentito niente prima di quel momento.
Ma forse la cosa più importante che ci permettono i registratori, è quella di riuscire a conservare la lingua, quel “dialetto siciliano” che è destinato inesorabilmente a scomparire. Un dialetto che a quei tempi era una vera lingua perché rappresentava ed esprimeva quel mondo agricolo. Una ricchezza di vocaboli e di espressioni che l’italiano non riesce a rendere o a tradurre senza perderne il colore e la bellezza. Nel libro abbiamo tradotto il siciliano, cercando di mantenere dove possibile le stesse strutture sintattiche e lo stesso lessico, perché volevamo che chiunque potesse leggere e comprendere il racconto degli anziani. Abbiamo poi inserito dei Glossari sugli attrezzi e sui loro nomi e un piccolo vocabolario. Ma nel dvd e in tutte le ore di registrazione, la lingua siciliana emerge con la sua freschezza e ricchezza. E ci sembra questo già di per sé un grande risultato e un grande obiettivo raggiunto, perché la lingua non è solo uno strumento per comunicare, ma anche un modo di vedere il mondo, di interpretarlo e di conoscerlo. Senza la conoscenza e la conservazione della lingua, non si riuscirebbe più a comprendere quel passato nel suo vero valore, perché verrebbe inevitabilmente distorto da un linguaggio, come il nostro, che non è più adatto a rappresentare quel mondo.
Un altro aspetto del nostro progetto che vorrei sottolineare, riguarda il contributo dell’artista Giusto Sucato, che non è qui con noi stasera a causa di un altro impegno. Egli ha incontrato i ragazzi fornendo loro il punto di vista di un artista che ha rappresentato il mondo contadino attraverso le sue opere. In particolare ha parlato di architettura popolare e di alcune caratteristiche delle case. Tutte cose raccolte nel libro e che hanno dato ai ragazzi la possibilità di approfondire la loro conoscenza del passato e nello stesso tempo di conoscere un artista del nostro territorio. Io ricordo a questo proposito quando Giusto Sucato parlava di “porte all’annate”, di pavimenti rattoppati, di tetti fatti con le canne, o degli intonaci fatti con calce e azzolo. Oppure del fumo dei pentoloni usato per fare lo zoccoletto. O ancora di quel foro in fondo alle porte, chiamato “attaloro” che serviva a far entrare e uscire il gatto. Dato che a quei tempi il gatto era non solo un animale di compagnia, ma utile perché contribuiva a tenere sotto controllo la proliferazione dei topi. Nelle case, infatti, le famiglie tenevano le loro piccole provviste, o spesso vi abitavano anche animali come conigli, galline, maiali, cani. Dunque vi era la necessità di avere un predatore come il gatto che attraverso questo foro poteva entrare ed uscire liberamente dalla casa.
Insomma come potete capire bene, gli aspetti e le curiosità sono tante e ci rimandano al libro.
Il nostro progetto ha avuto un grande successo. Questo lo dobbiamo dire senza falsa modestia. Un successo possibile solo perché è stata un’azione corale che ha coinvolti tanti soggetti, dal Comune di Misilmeri, alla scuola, dalla Camera del Lavoro, alle cooperative sociali, al Cesvop. L’Auser di Misilmeri con tutti i suoi volontari è stata l’anima del progetto. Le mille e più copie del libro che il CESVOP ci ha fornito, hanno fatto il giro del paese e sono andate oltre il comune di Misilmeri, come testimonia l’incontro di stasera qui a Marineo. Il filmato, curato da me e da Vito Tursi, viene mandato ancora oggi da TSE e sono tanti i cittadini che lo hanno apprezzato e richiesto. D’altro canto la recente uscita del film di Tornatore, Baaria, ha per certi versi incrociato il nostro lavoro, perché anche in quel film si raccontano vicende del tutto simili a quelle che i nostri anziani ci raccontano. Il territorio è sempre quello, quindi niente di strano che ci possano essere delle analogie.
Ma per concludere io vorrei ribadire che il successo di questo progetto, il suo fascino, è stato in gran parte merito degli anziani e degli studenti. Noi che lo abbiamo organizzato in realtà ci abbiamo messo poco. Anzi, a volte con la nostra imperizia e inesperienza, abbiamo perso del materiale importante. Come quando durante l’incontro di Portella di Mare, abbiamo registrato a microfono spento, perdendo nei fatti il racconto dell’Ulivo e di tutta la lavorazione dell’olio, che a quei tempi era molto diversa da quella attuale. Quel racconto c’è nel libro, ma non c’è nel dvd.
Non è stato indifferente, anzi io credo che sia stato determinante, il fatto che La Banca della Memoria, sia stato realizzato a scuola. La scuola media di Misilmeri è stata nei fatti la principale protagonista del progetto. La scuola come struttura, come aule, come ambiente, come personale scolastico, come insegnanti che ci hanno aiutato, come il dirigente scolastico che ci ha seguiti e incoraggiati. Ma la scuola soprattutto come gli studenti. Più di 120 alunni hanno partecipato agli incontri ed hanno fatto domande, ricerche, prodotto testi, poesie, disegni, cartelloni. Lavori che abbiamo inserito nel libro e nel dvd. Senza di loro, io credo che La Banca della Memoria, non sarebbe stata la stessa cosa. Un conto è raccontarci le cose tra di noi, come stiamo facendo stasera, altra cosa è però rapportarsi con ragazzi di 12-13 anni, che vivono in un mondo completamente diverso dal nostro e da quello degli anziani. Per questo noi ci auguriamo che progetti come questo possano realizzarsi anche in altri comuni e che si possa fare un vero e proprio museo della memoria di questo territorio. Un museo che completi quello mirabile di Godranopoli realizzato grazie all’indimeticato Francesco Carbone, mettendo assieme gli attrezzi con le testimonianze dirette dei protagonisti. Credo che questo dovrebbe essere un obiettivo e un impegno di amministrazioni lungimiranti, che hanno a cuore il futuro di questa terra.