La Gomorra di Roberto Saviano


di Francesco Virga
Fino a qualche anno fa mafia e camorra erano considerati fenomeni arcaici, residui di un passato feudale che il “progresso” avrebbe, prima o poi, spazzato via.
Solo da poco tempo, grazie soprattutto ai contributi degli storici Salvatore Lupo ed Umberto Santino e di alcuni giovani sociologi come Alessandra Dino e Rocco Sciarrone, si è arrivati ad una diversa percezione di Cosa Nostra. Un rivoluzione simile, nell’ interpretazione della camorra, si deve a Roberto Saviano che, in un libro davvero singolare, a metà strada tra letteratura e sociologia, intitolato Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, svela la ‘normalità’ della mafia napoletana, il suo essere, prima di tutto, un sistema di vita, un fenomeno di potere dove l'aspetto criminale è solo uno degli aspetti.
Ero già stato colpito dal giovane scrittore napoletano, prima che divenisse famoso, leggendo il suo breve saggio pubblicato nel novembre 2005 su Nuovi Argomenti, nel numero monografico dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Il testo di Saviano richiamava – già nel titolo: “Io so e ho le prove” – un famoso articolo del poeta friulano. Colpiva la sua grande forza espressiva, la straordinaria capacità di partire da un particolare, da una concreta esperienza vissuta, per arrivare a comprendere non soltanto la camorra napoletana e le diverse mafie meridionali ma l’intera economia mondiale che ha le sue basi, e non da oggi, sulla sopraffazione e la violenza (1).
L’Espresso del 23.11.2006, oltre a dedicare la copertina a Roberto Saviano, pubblica un suo lungo importante articolo intitolato “E voi dove eravate”. Si tratta di una sorta di manifesto, dove l’Autore di Gomorra, espone la sua poetica, oltre a rivelare alcune delle sue insospettabili fonti.
Le prime righe ricordano sommariamente gli anni eroici di Danilo Dolci, gli “scioperi alla rovescia” degli anni cinquanta, gli anni dei suoi libri più coraggiosi: Banditi a Partinico, Processo all’art.4, Inchiesta a Palermo. Saviano si sofferma particolarmente sulle parole del poliziotto che arrestò Dolci nel corso di quel famoso sciopero: “Sig. Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?”.
Saviano osserva giustamente che a generare scandalo è soprattutto il fatto che uno scrittore, «il mestiere considerato più innocuo ed incapace di avere alcun tipo di forza nella realtà» possa d’improvviso divenire responsabile di una luce che prima era sbiadita e sbilenca, di «uno sguardo infame che spiffera ciò che si vuole celato, che urla quello che è sussurrato, che traduce in sintassi e insuffla vita a quello che prima era disperso in frasi frammentarie di cronaca e sentenze giudiziarie». Proprio in questo passo mi pare che si possa leggere, tra le righe, il riferimento al metodo seguito per scrivere Gomorra. Ma Saviano incalza, osservando:
«La vita o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello, eppure ci sono momenti in cui la vita, la si scrive per mutarla. Ciò che mi è capitato in questi giorni ha generato apprensione e scandalo, ma in realtà non per quello che è accaduto – dalle mie parti ciò che mi è accaduto capita a moltissime persone, quotidianamente e per molto meno – ma perché è accaduto ad uno scrittore. Per uno scrittore il modo per innestarsi nel reale è raccontarlo. (…) Quando racconti un processo, quando raccogli la cronaca nera, quando ascolti le intercettazioni comprendi che l’unico modo per capire è raccontare tutto questo come parte di un corpo che nasconde i suoi organi».
Non sono molti gli autori che, oltre a saper raccontare, riescono anche a illustrare chiaramente il metodo seguito. Saviano è uno dei pochi a farlo, con grande sapienza, nonostante la sua giovane età, come appare evidente proprio nel testo che stiamo prendendo in esame. Inoltre, dopo aver rilevato l’indifferenza che, in passato, ha accompagnato simili denunce, per evidenziare la differenza specifica esistente tra scrittura giornalistica e scrittura letteraria, non trova di meglio che citare le stimolanti parole del Magistrato Raffaele Marino:
«Lo scrittore letterario non è innocuo per niente, ha rotto una delle croste che relegavano questi meccanismi e questi poteri a una mortale dialettica tra magistrati, camorrista, tribunali e cronaca nera. La città, l’intero paese credeva di essere escluso, credeva che tutto fosse relegato a una trascurabile parte del territorio. Ora ha lasciato quest’esilio e ha coinvolto tutti. Nessuno può più sentirsi escluso».
E già stato osservato come Gomorra non sia certo il primo libro a realizzare una felice simbiosi tra letteratura e giornalismo. Nel secolo scorso autori come Hemingway, Garcìa Marquèz, Camus, Sciascia e Pasolini – solo per ricordare alcuni, tra i più grandi – hanno dimostrato come sia possibile coniugare cultura e attualità, letteratura e giornalismo. Ma, come ha giustamente osservato Wu Ming, è assolutamente straordinaria la capacità di Roberto Saviano di passare da un genere all’altro, anche nell’arco di una stessa pagina. Gomorra è costruito su atti di istruttorie giudiziarie, verbali di dibattimenti, interviste. Ma se questo libro fosse stato solo un reportage, non ci avrebbe fatto capire tante cose sul “sistema”, non ci avrebbe fatto capire come la camorra non riguardi soltanto Napoli, non ci avrebbe fatto riflettere sul nucleo criminogeno dell’economia capitalistica.
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(1) Da quando Jacques Attali, con il suo recente saggio: Karl Marx. Ovvero, lo spirito del mondo (Roma: Fazi, 2006), ha sdoganato l’opera del barbuto maestro di Treviri, è diventato lecito tornare a citarlo. Mi pare opportuno ricordare allora uno dei capitoli più belli de Il Capitale, quello sulla cosiddetta “accumulazione primitiva”, dove si racconta, in modo inoppugnabile, la violenza sistematica con cui è stata costruita la civile e moderna Inghilterra.
* testo già pubblicato su Dialogos